La Dda: “Tratta di clandestini per finanziare il terrorismo pakistano”

Per entrare in Italia con l’aiuto della cellula pakistana del terrorismo si pagavano tra i 6mila e i 7mila euro.

La tratta di clandestini per finanziare il terrorismo. Ovvero, “associazione a delinquere finalizzata alla commissione di delitti volti a favorire l’illegale ingresso, soggiorno e permanenza nello Stato Italiano”. È questo il secondo e pesantissimo d’imputazione dal quale dovrà difendersi Khan Sultan Wali, il 39enne pakistano arrestato a Olbia insieme a due connazionali, nell’ambito del filone sardo sull’inchiesta per strage. Nel 2005 l’ha aperta la Dda di Cagliari, in collaborazione con la Digos di Sassari e la Direzione centrale della Polizia di prevenzione. Ma, a vario titolo, devono rispondere anche di associazione a delinquere con finalità di terrorismo, le 18 persone – tra pakistani e afghani – contro i quali è stata emessa un’ordinanza di custodia cautelare.

La cellula vicina ad Al Qaeda aveva fissato un prezzo per aiutare gli extracomunitari a entrare in Italia. Si pagavano “tra i 6mila e i 7mila euro“, spiega il procuratore capo, Mauro Mura. Il resto sono dettagli che si possono immaginare. Ovvero, un giro di passaporti falsi e condizioni di viaggio da incubo. E comunque una vita sempre sotto il controllo del gruppo stragista che il 28 marzo 20005, a Peshwar, aveva fatto sistemare un’autobomba all’ingresso del mercato, uccidendo 137 persone, soprattutto donne e bambini, e ferendone almeno altre 200.

Il procuratore capo parla, infatti, di “spiccato spessore criminale“, quando descrive il profilo di alcuni degli arrestati. E oltre al nome di Wali, fa quello di Zulkifal Hafiz Muhammad, l’imam 42enne arrestato a Verdellino, in provincia di Bergamo. Le altre ordinanze di custodia cautelare riguardano pakistani e afghani residenti a Roma, Sora (Frosinone), Civitanova Marche (Macerata) e Foggia.

Dal 2005, quando scattò l’indagine, al 2012, anno in cui la Polizia fermò le intercettazioni perché ormai la cellula aveva scoperta di essere nel mirino degli investigatori, sono stati raccolti e spediti in Pakistandiversi milioni di euro“, continua Mura. Che a fine conferenza stampa, tornando sull’argomento, sintetizza con un “poca virtù e molto denaro”, l’azione dei presunti stragisti.

Dalle intercettazioni si è arrivati pure ai nomi delle cellule pakistane che ricevano i soldi. Sono tre: Theerek-e-Taliban”, “Theerek-e-nifaz” e “Sharia e Mohammadi”. Il procuratore capo le definisce “le cugine di Al Qaeda“. Ma i denari raccolti in Italia finivano anche allo sceicco del terrore Osama Bin Laden, con il quale i pakistani arrestati avevano “contatti diretti”. Il tutto costruito attraverso una rete di “contatti tra famiglie”.

Wali, a Olbia, era da tutti considerato il capo della comunità di Islamadad. “Attraverso il suo negozio, e rigorosamente in nero – spiego Mario Carta, capo della Digos sassarese – l’uomo riforniva i connazionali che vendevano la più svariata merce nelle spiagge, o in altri negozi”, sia in Gallura che nel resto dell’Isola.

Per finanziare il terrorismo pakistano non mancavano collette perfinti scopi umanitari“, motivazione con la quale venivano chiesti i soldi. Wali, peraltro, sosteneva economicamente la moschea di Olbia, in via Mameli, confine del centro storico.

La cellula del terrore si affidava a “ben individuati corrieri“, continua Mura, perportare il denaro in Pakistan. Obiettivo: armare i terroristi contro la rappresaglia del governo di Islamabad. “Ma sebbene siano soltanto indizi non oggetto di contestazione”, i presunti stragisti erano legati anche a gruppi “dediti alla vendita di armi e al traffico di droga”.

A una sola domanda gli inquirenti non sanno ancora rispondere con precisione. Ovvero, per quale ragione i pakistani avessero scelto la Sardegna come base del crimine. Carta fa solo un’ipotesi: “Probabilmente – dice – la Gallura garantiva una posizione defilata, visto che avevano la necessità creare meno sospetti possibili”.

Quanto al metodo investigativo, Dda e Digos hanno lavorato quasi esclusivamente con le intercettazioni. E si è trattato sempre di conversazioni rigorosamente in dialetto, “per espressa richiesta” dei boss. Tanto che la Direzione distrettuale anti-mafia ha dovuto reclutare un gruppo di pakistani per sbobinare le telefonate. Ma a sentire Carta, c’è forse una relazione tra la soffiata avuta dalla cellula e la conseguente chiusura delle indagini. Il capo della Digos sassarese parla infatti “traduttori quasi sempre fedelissimi”.

Alessandra Carta
(@alessacart on Twitter)

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