DIARIO. Carola Farci, volontaria per gli Sahrawi. L’arrivo nel deserto

Carola Farci, cagliaritana 28enne, è partita sabato per un progetto di volontariato con il popolo Sahrawi, che da quarant’anni vive esule nel deserto dell’Algeria a causa di contrasti con il Marocco. La giovane, insieme al gruppo dell’associazione Looking4, dopo un lungo viaggio in aereo da Cagliari verso Tindouf ha raggiunto in campo di Auserd, nel mezzo di un deserto arido e inospitale. L’ultima parte del percorso il gruppo è stato scortato dall’esercito algerino e poi da quello della RASD, Repubblica Araba Saharawi Democratica. Ecco in esclusiva per SardiniaPost il racconto del viaggio e dell’arrivo. 

Il primo giorno si intitola: “attesa”.

La partenza da Cagliari è all’alba. Dopo una settimana di sonni interrotti e di ansie e googolizzazioni improbabili, la tensione si è finalmente dissipata lasciando spazio esclusivo all’entusiasmo. La forza fisica, invece, è tutta focalizzata sugli zaini: due zaini di roba varia donata generosamente da sardi e toscani, per un totale di circa 25 kg, il 50% del mio peso da portarmi da Cagliari sino al cuore del deserto africano.

La prima tappa è Roma, dove mi incontro con gli altri di Looking4. Verso l’ora di pranzo si parte e si va ad Algeri. Qui è l’agonia: 8 ore nell’aeroporto di Algeri. Ribattezzato rapidamente “toda vida”. La pizza che mangiamo là, unico cibo che, passando dal forno, potrebbe avere meno batteri di un cadavere, è in realtà esageratamente inquietante e continua a lievitarci in pancia sino a notte inoltrata.

Verso le 23 si parte per Tindouf, su un aereo del 15-18 che fa strani rumori. Non importa perché dormiamo dal primo minuto all’ultimo e lo scricchiolare del corpo metallico dell’aeromobile non fa che cullare i nostri sogni.

La prima cosa da notare è che Roma-Algeri dista la metà di Algeri-Tindouf. L’Algeria è un Paese immenso. L’arrivo a Tindouf, aeroporto militare della dimensione di una stanza, è particolarmente fortunato: il 100% dei bagagli del gruppo è arrivato a destinazione. Miracolo irripetibile.

Da qui veniamo caricati su una gip della RASD, Repubblica Araba Saharawi Democratica, e partiamo scortati da due auto dell’esercito algerino. Arrivati al confine coi territori saharawi, il testimone della scorta passa di mano: l’esercito algerino si ritira, e arrivano invece due auto del Fronte Polisario ad accompagnarci sino a destinazione. Il viaggio nella gip dura un’oretta, per strade piuttosto dissestate. Per tutta la durata del viaggio stiamo attaccati ai finestrini: la notte nel deserto è la cosa più bella che abbia mai visto. Sarà la stanchezza, sarà la paura misto entusiasmo, ma davanti a quel cielo stellato non si trattengono le lacrime.

Arriviamo ad Auserd intorno alle 3 del mattino. Alloggiamo nella casa di Zagma, che parla italiano perché da bambina ha spesso passato le estati a Cascina, dove ancora accompagna i piccoli saharawi nei periodi più caldi, in cui nel deserto si arriva a 50 gradi. La sua ospitalità ci lascia senza parole: lei e la sua famiglia ci hanno lasciato la casa tutta per noi mentre loro staranno nella loro tenda. Noi cinque dormiamo tutti in una stanza, in delle specie di materassoni per terra. Fa veramente freddo e le coperte non bastano per arginarlo. Per altro, dopo un’oretta che siamo andati a dormire, comincia a cantare il gallo che sta in giardino, svegliandoci con una cadenza di ogni venti minuti circa.

Fu notte e fu mattina. Secondo giorno.

Ci svegliamo intorno alle 8 per andare al distretto di polizia perché ci hanno detto di presentarci là a fare non si sa bene cosa. Anche perché quando arriviamo non c’è nessuno eccetto un vecchino che guarda l’orizzonte.

Approfittiamo per fare un giro per il campo. Il suolo è costipato di bottiglie di plastica, lattine, etc, che poi si mangiano le capre, che poi vengono mangiate dai saharawi. Un ciclo della vita un po’ cancerogeno, da cui si comprende perché è bene diminuire la produzione di plastica nel mondo: noi non ne avvertiamo le conseguenze, nei Paesi poveri si avvertono bene. E fanno paura.

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Andiamo poi a fare una visita al Centro Giovani, dove ci mostrano le cose acquistate con gli aiuti di Looking4. Dall’anno scorso nel campo è arrivata l’elettricità, rendendo la vita più semplice ma l’umore più basso: è un segnale che il ritorno alla loro terra, il Sahara Occidentale, non è vicino, e viene preso dai Saharawi con triste rabbia.

Per il resto la giornata passa a salutare le varie famiglie nelle varie tende: si entra, ci si siede, si parla in un misto di sei o sette lingue diverse, si beve il tè, si sta in silenzio a guardare i meravigliosi tappeti che tappezzano le tende, si beve il tè, si salutano i nuovi arrivati, generalmente cugini dei fratelli degli zii dei proprietari delle tende, si beve il tè. E dopo aver bevuto un po’ di tè si va via e si passa alla famiglia successiva.

Questo primo giorno è così, un po’ per ambientarci, un po’ per fare conoscenza della gente del campo, un po’ per carpirne le dinamiche. Da domani comincia il lavoro.

Carola Farci

(le foto sono di Andrea Vignali)

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