Centrale Powercrop: è veleno “verde”?

E l’Accordo di filiera? Carta straccia? Non del tutto, visto che, argomenta sempre Luca Saba, “senza quel documento la Powercrop non avrebbe ottenuto gli aiuti provenienti dalla Comunità europea e dallo Stato per la riconversione dello zuccherificio”.

In conclusione: se l’anima del progetto Powercrop è lo sviluppo in loco di una filiera agro-energetica, quello della Powercrop è un progetto senz’anima. Oppure quest’anima non è verde come si dice. C’è infatti un dubbio pesante, avanzato tra gli altri da Vincenzo Migaleddu, presidente sardo dell’Isde, l’associazione dei- Medici per l’ambiente. Secondo Migaleddu, “l’impianto a griglia previsto nel progetto della centrale a biomassa può essere facilmente riconvertito al fine di smaltire rifiuti“.

D’altra parte, il legislatore italiano, da vero azzeccagarbugli, rende possibile la conversione delle centrali a biomasse in inceneritori. In pratica, nel migliore dei casi, “l’impianto verrà alimentato con olio di palma proveniente dal Terzo mondo”, sostiene Luca Saba, mentre, nel peggiore, affianco al Tecnocasic sorgerà un altro inceneritore. La vicinanza dell’impianto al Porto Canale rafforza i sospetti.

UN ENORME CONSUMO DI TERRITORIO

Ma si dia per buono quanto affermato dai dirigenti Powercrop, che pubblicamente sostengono di volere alimentare l’impianto con biomassa coltivata entro un raggio di 70 chilometri. Quanta terra è necessaria per raggiungere l’obiettivo?

La centrale di Macchiareddu, la più grande tra quelle partorite in seguito alla chiusura degli zuccherifici imposta dall’Unione Europea a partire dal 2006, è un impianto ad alta voracità, che ingurgita circa 350.000 tonnellate di biomassa all’anno tra cippato (il legno di ridotto a scaglie per il suo uso come combustibile, ndr) di eucalipto (220.000 tonnellate), brassica carinata – una pianta simile al colza – (74.000), grano duro (16.500) e olio di palma.

In località Pimpisu, nel comune di Samassi, lungo la strada provinciale Villacidro-Samassi, sorge una piantagione di eucalipti destinati a biomassa. Gli studi effettuati sugli eucalipti sardi mostrano che la resa ad ettaro si aggira attorno ai 1.160 quintali. Cosa se ne deduce? Che per soddisfare il fabbisogno annuale di eucalipto della centrale a biomassa servono qualcosa come 1.900 ettari coltivati ad eucalipto. Ma c’è di più: è chiaro, infatti, che se gli eucalipti non possono essere cippati annualmente, l’area da destinare a questa coltura aumenta a dismisura. E se non si fosse riusciti ad ottenere il cippato necessario dalle piantagioni di eucalipto? Nessun problema: la Powercrop non avrebbe problemi, visto che “la biomassa legnosa potrà essere integrata con biomassa proveniente dalle manutenzioni forestali, del verde pubblico e dei corsi d’acqua”. Solo che l’Ente Foreste non ne sa nulla. “Non c’è mai stata nessuna interlocuzione con la Powercrop”, afferma il direttore generale Gilberto Murgia.

E comunque il cippato non basterebbe: per alimentare la centrale a biomassa e i motori ad olio ci vogliono anche i semi di brassica carinata. C’è, però, un inconveniente: la resa della brassica carinata, coltura già sperimentata in Sicilia, è piuttosto bassa: si aggira intorno ai 15 – 20 quintali all’ettaro. Anche in questo caso, i calcoli sono presto fatti: alla Powercrop servirebbero circa 50.000 ettari coltivati a brassica carinata.

Non è finita. All’impianto a biogas verranno infatti inviate 16.500 tonnellate di grano duro ovvero si dovrebbero sacrificare sull’altare delle “rinnovabili” altri 6.500 ettari di fertile terreno. In totale, 60.000 ettari da destinare alla coltivazione della biomassa. Una superficie pari, cioè, a quella venuta a mancare negli ultimi vent’anni alla coltivazione del grano, che “agli inizi degli anni ’90 ricopriva 90.000 ettari, mentre oggi circa 30.000”, afferma Tandeddu della Copagri.

Già, è successo questo:  nel giro di appena due decenni la Sardegna ha perso la capacità di sopperire al proprio fabbisogno, lasciando incolti i propri campi, con conseguente aggravio della bilancia commerciale: oggi l’isola importa grano per una quantità superiore al 50% del proprio fabbisogno, mentre esporta energia. Ma, se un guru come Lester Brown, direttore dell’Earth Policy Institute di Washington, afferma che il grano è l’oro del futuro, perché si dovrebbe coltivare brassica carinata o, peggio ancora, triticale ovvero grano per fare energia?

Piero Loi

 

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