Sulla “Guerrilla art” di Olbia e sulla burocrazia solerte

La notte di lunedì 30 dicembre, come ampiamente riportato dai media nazionali, è scattata nella città di Olbia un’operazione di “Guerrilla art”. Cinque squadre di volontari hanno dato vita al progetto “Exposed” tappezzando la città con 240 poster con i ritratti di superstiti dell’alluvione del 18 novembre che ha stroncato 16 vite e cambiato l’esistenza di centinaia di famiglie.

L’operazione, che doveva essere anonima, si è conclusa alle 4 del mattino, ma già alle 8 i poster erano stati rimossi e distrutti dagli operai dell’Aspo, concessionaria delle affissioni in città. La burocrazia, si sa, non riesce a distinguere una lacrima da uno sputo. Men che meno un’installazione artistica di importante valore simbolico e sociale dalla paccottiglia pubblicitaria.

«Sarà pure un’azione benefica ma per le affissioni bisogna sempre pagare i tributi – ribatte il presidente dell’Aspo – Noi i manifesti abusivi li rimuoviamo puntualmente. Siamo solerti, forse siamo un esempio per l’Italia». Nel giustificarsi il presidente dell’Aspo peggiora le cose, scambiando un’azione artistica con una “benefica” e opere fotografiche con “manifesti”, avvalorando la tesi di Eugene McCarthy, politico e poeta americano che scrisse, nel 1979 su Time magazine: “L’unica cosa che ci salva dalla burocrazia è l’inefficienza. Una burocrazia efficiente è la più grande minaccia alla libertà”.

A questo punto l’azione viene rivendicata, anche per i risvolti legali che si andavano delineando, da Gianluca Vassallo, poliedrico artista di San Teodoro che si divide fra l’isola e New York: «Rivendico la costruzione dell’azione. L’organizzazione muta. La bellezza degli incontri che ha generato, soprattutto. Una bellezza fatta di fatica offerta al costo di un abbraccio. Al beneficio di un abbraccio».

L’artista, sconcertato per un epilogo inatteso, per questa violenza culturale, riflette amaramente: «Quelle foto, pur avendo fatto il giro dei media nazionali, sono state viste, nel contesto artistico progettato (e quindi nella loro interezza espressiva ndr), solo da chi le ha affisse e da chi le ha rimosse. La città ne è stata privata».

Il web ha reagito dividendosi, come al solito, fra chi plaude l’operazione e chi accusa l’artista di strumentalizzazione, di sciacallaggio, di ricerca, servendosi di un’azione provocatoria e illegale, della ribalta a buon mercato.

Ora che l’eco delle polemiche si è spento, è tempo di riportare la questione su un piano più consono: sui contenuti di una installazione che ha usato la fotografia — sono parole dell’artista — come arte elementare, rifuggendo da ogni forma di tecnocrazia e superando il concetto dell’immagine come fine.

«Non ero in Sardegna quando è accaduto il disastro — racconta Vassallo — e, al mio ritorno, mi sono interrogato su cosa potesse fare l’arte per ridare voce a queste persone che, passata l’attenzione dei media, si ritrovano ad essere semplicemente “alluvionati”, trasformati da singoli individui in categoria, in gruppo indistinto».

Partendo da qui Vassallo ha inventato una performance autofinanziata, distante da finalità commerciali, dai chiari intenti di denuncia sociale che merita, artisticamente, alcune sottolineature. Portare la fotografia nelle strade, fuori dalle mostre e farla vivere nei luoghi dove le persone hanno consumato il loro dramma non è un atto provocatorio. Piuttosto è un intelligente gesto artistico di pacifica denuncia che, silenziosamente, dà voce a chi non ce l’ha. In questo senso è, certamente, un atto rivoluzionario.

La scelta dei ritratti per raccontare un evento terribile con gli sguardi di chi lo ha vissuto è un’operazione fotograficamente ed artisticamente raffinata che si nutre di maestri come Paul Strand, Dorothea Lange o Margaret Bourke-White.

La modalità dell’installazione ha poi un forte valore simbolico: I poster che inondano la città seguendo i percorsi dell’alluvione,16 ritratti, come 16 erano le vittime. Molte persone fotografate mostrano un oggetto, un simbolo, un frammento della propria vita salvato alla furia dell’acqua: un passaporto, il certificato di adozione del cane che, abbaiando, ha salvato la vita dei padroni. Oppure offrono all’obiettivo solo il proprio sguardo, carico di dignità e d’incertezza.

Vassallo riesce, con la sua fotografia che non fornisce risposte ma pone precise domande, a declinarla in senso Barthesiano: “La fotografia è sovversiva non quando spaventa, sconvolge o anche solo stigmatizza, ma quando induce a pensare”.

L’artista raggiunge il suo scopo allontanando, per una volta, la doppiezza che ogni foto porta con sé e restituendo la memoria attraverso sguardi che raccontano storie intime, personali, individuali. Storie di uomini e donne, non indistinte vicende di “alluvionati”. Fotografie, come diceva Roland Barthes, “pensose”.

Al di là dell’epilogo surreale della sua performance, Vassallo ha offerto alla città un contributo: una efficace sintesi visuale che, con i linguaggi dell’arte, induce a ragionare, a riflettere, ad uscire dal perverso circolo delle troppe parole vuote. Come Daniel Pennac, romanziere francese che scrisse : “Ho fatto delle foto. Ho fotografato invece di parlare. Ho fotografato per non dimenticare. Per non smettere di guardare”.

Enrico Pinna

 

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