Su Re, la passione di un Cristo umano

Pasqua dopo Pasqua, il cinema ci ha abituato a nuove versioni della Passione, alcune più “sperimentali”, altre più “tradizionali”. E poi arriva nelle sale Giovanni Columbu con Su Re, un film essenziale che non si presta a una facile definizione o catalogazione.

Ispirato ai Vangeli di Matteo, Marco, Luca e Giovanni, Su Re è una “belle infidèle” del cinema moderno, “fedele” al racconto, sostanzialmente e inevitabilmente noto a tutti, e “infedele” nell’ambientazione e nei costumi prepotentemente sardi. Eppure, rispetto ai nuraghi, dove si complotta per la morte del Nazareno e dove si svolge il processo, lo scenario della crocifissione, aspro e silenzioso, conturbante e lunare, è sì uno scorcio di Sardegna, ma è uno scorcio che colpisce per la silenziosa desolazione, per il bianco dei ciottoli su cui risalta simbolicamente il nero delle vesti. Tanta desolazione quasi “annulla” la caratterizzazione locale; siamo e non siamo in Sardegna, divenuta quasi simbolo di una dimensione più ampia.

Quando parlano, i personaggi parlano in sardo. È un sardo schietto e diretto, per lo più barbaricino (ma di cui sono rappresentate qua e là altre varietà, quasi a non voler dare una connotazione esclusiva alla lingua e agli avvenimenti). È un sardo che sa essere rude nei momenti più duri e profondamente carico di emozioni sulla bocca di Maria, madre straziata per la morte di un figlio.
Su Re di Columbu è un Cristo umano che, da uomo, di fronte alla morte e al dolore (non solo ma prepotentemente) fisico, soffre come un qualsiasi uomo e come un qualsiasi uomo ha paura. Sullo schermo, c’è un uomo ucciso dalla durezza e dall’insensata furia del branco, c’è il dolore attonito e straziante di una madre a cui hanno ucciso un figlio, e c’è l’umana impotenza dei compagni, ora impauriti ora quasi infantilmente “coraggiosi”.

Su Re è un film di poche parole, essenziali. Rispetto alle prolisse versioni che si sono avvicendate negli anni sugli schermi, i personaggi di Columbu dicono solo ciò che è strettamente necessario, che vale la pena dire. Nessuna parola di troppo, anche questo profondamente in linea con l'”immaginario comune” sulle genti di Sardegna. Il resto è lasciato all’espressività degli sguardi, ora incarnazione della violenza del branco, ora dell’assurdità e dell’insensatezza di questa violenza, ora immagine concreta e palpabile del dubbio, dell’incredulità, dell’impotenza e, non da ultimo, del dolore. Insieme agli sguardi, suoni e rumori (vento, respiri, gemiti, zoccoli di cavalli, martellate…) riempiono e caricano il silenzio e ad essi è affidato, non senza angoscia, il compito di esprimere una violenza sentita più che mostrata.

Nel finale, i lamenti, mugugnati quasi in una nenia dal coro delle donne (che in questa parte compaiono prepotentemente come una schiera silenziosa, nera e quasi impenetrabile) lasciano spazio all’unico brano musicale, Nunc Dimittis di Arvo Pärt, da molti riconosciuto come il più autorevole e interessante autore di musica sacra del nostro tempo. A chiudere Su Re è, dunque, il cantico con cui il vecchio Simeone, in una preghiera di ringraziamento, chiede a Dio di potersi congedare dalla vita terrena, dopo aver visto il Messia presentato al tempio da Maria e Giuseppe.

È forse qui che il divino (assente dal resto del film) si affaccia timidamente, nella luce finale che illumina lo scenario del calvario, scalato da tre bambini, finalmente vestiti di colori. Un messaggio di speranza dopo la cieca violenza delle vecchie generazioni, protagoniste, pressoché assolute, del film.

Morena Deriu

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