La morte di Gabriele Basilico, il fotografo delle città

Quando se ne va un maestro della fotografia è come se la nostra vista perdesse qualche diottria. La nostra visione sembra diventare improvvisamente più povera, meno acuta.

Così la morte di Gabriele Basilico, fotografo e architetto milanese, ci priverà della sua nitida e poetica visione degli spazi urbani. Quel suo raccontare l’architettura dei luoghi che cambiano cogliendone, da architetto, l’anima, lo spirito più vivo e profondo.

Gabriele Basilico ci ha lasciato oggi, all’età di 69 anni, dopo una lunga malattia. Verrà ricordato come uno dei più lucidi protagonisti della fotografia Italiana del novecento. Laureato in architettura è stato un grande interprete di ambienti urbani che ha raccontato con un bianco e nero nitido e geometrico, registrandone le forme, la misura degli spazi, i cambiamenti, le tensioni, i contrasti di luoghi che nascono, cambiano, muoiono. Talvolta di vecchiaia, altre volte di incuria, di abbandono, di guerra.

Bellissimo e struggente il suo lavoro sulle fabbriche dismesse del milanese. Quei muri, quelle facciate misurano la cifra del cambiamento, del passaggio epocale. Passato e presente tracciati con visioni semplici e rigorose, dai segni netti e scarni, quasi grafici.

E poi il suo grande, famoso reportage nella Beirut del 1991, dilaniata dalla guerra civile e devastata dalle bombe. Di quell’esperienza raccontò: «Era tutto abbandonato, completamente silenzioso, mi muovevo tra le macerie e non riuscivo a trovare un modo di fotografare, non sapevo da dove cominciare in mezzo a tutta quella distruzione. Poi uno scrittore che mi accompagnava mi portò sulla terrazza dell’hotel Hilton e mi disse: “Cosa vedi?”. “Una città distrutta”, risposi. “Guarda meglio, ancora più lontano”. Sullo sfondo c’era del fumo, dei panni stesi, cose vive. Allora mi disse: “Non è una città morta ma ferita, ancora viva, scendi e fotografa questo. Da quel momento sono entrato in una vertigine e ho fatto seicento foto di grande formato in un mese».

Con Basilico scompare uno dei grandi fotografi italiani post ’68. Lascia una immensa eredità culturale. Un lavoro documentale che ha raccontato l’uomo fotografando il suo edificato. «Le architetture – disse – sono lo spazio costruito, l’incarnazione fisica e metaforicamente speculare dell’azione dell’uomo. Io cerco il senso del vuoto per concentrarmi sullo spazio e meglio comprendere chi lo ha realizzato». I suoi scatti sono sguardi urbani lucidi e consapevoli, che raccontano, senza mostrarli, di come vivono, invecchiano e muoiono i suoi abitanti.

A chi gli chiedeva di definirsi come fotografo rispondeva: « Sono un misuratore di spazi: arrivo in un luogo e mi sposto come un rabdomante alla ricerca del punto di vista. Cammino avanti e indietro, la cosa importante è cercare la misura giusta tra me, l’occhio e lo spazio. L’azione fondamentale è lo sguardo, la foto è la memoria tecnica fissata di questo sguardo. Ma c’è bisogno di tempo, la foto d’eccellenza è contemplativa».

Enrico Pinna

 

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