Il dolore degli altri

«Le fotografie sconvolgono nella misura in cui mostrano qualcosa di nuovo. Purtroppo si continua ad aumentare la posta, anche mediante la proliferazione stessa di queste immagini dell’orrore». Lo scriveva Susan Sontag quarant’anni fa.

Da allora l’escalation delle immagini crude non si è mai arrestata. Per indignarci di qualcosa abbiamo bisogno di vedere la testimonianza sempre più dura e spaventosa. Assecondati da un mondo dell’informazione che confeziona quotidiani intrattenimenti per spettatori passivi e assuefatti, da consumare, magari durante la cena, fra una portata e l’altra. Ad alimentare questo mercato decine di fotografi e cineoperatori che rischiano la vita, nei teatri di guerra, alla rincorsa di documenti sempre più espliciti e sconvolgenti.

Ma è giusto scattare quelle foto? Aveva ragione il compianto Ando Gilardi quando affermava che “dalla guerra non si può ricavare alcuna immagine contro la guerra”? Oppure bisogna «Registrare adesso, riflettere poi: la Storia giudicherà», come disse Margaret Bourke-White di fronte alle cataste di cadaveri delle vittime dell’olocausto, per vincere l’orrore che la spingeva ad abbassare l’obiettivo?

La questione non è semplice. Se il mondo non avesse visto le terrificanti foto scattate durante la guerra del Vietnam, ci sarebbe stato quel fortissimo movimento pacifista che ha indotto il governo americano a porre fine alla guerra? Forse no. Era giusto censurare le umilianti immagini (paradossalmente scattate dagli stessi carnefici) delle torture nel carcere Irakeno di Abu Grahib? Penso sia stato giusto mostrarle. Ci sono testimonianze che non possono essere nascoste.

Per contro, cosa riescono ad aggiungere tante altre immagini all’orrore che è già palese, palpabile, riconoscibile? è necessario infierire sul dolore (degli altri) per raccontare una notizia? Io non ho una risposta certa a queste domande. Ritengo però che il linguaggio fotografico sia ricco abbastanza per raccontare tante storie dolorose in modo intelligente. Sono convinto che sia possibile documentare avvenimenti tragici rispettando la dignità (individuale e collettiva) di chi li subisce. Mi ritorna in mente quel famoso ritratto scattato da Steve McCurry alla giovane profuga afgana, comparso sul National Geographic di qualche anno fa. Quello sguardo sgomento racconta, con discrezione, un orrore infinito senza mostrare una sola goccia di sangue.

Ma allora qual’è il limite? E chi dovrebbe stabilirlo? Troppe domande e poche risposte, lo so. Forse il limite è quello che la coscienza di ogni fotografo dovrebbe imporre. Per evitare immagini gratuitamente speculative e poco rispettose del dolore e della dignità degli altri, per arginare questa sorta di pornografia della sofferenza. E anche per tenere lontana l’assuefazione a questo bombardamento mediatico.

Penso possa esserci un modo per farlo. è difficile, lo so, perché il mestiere (e il dovere) del fotografo è quello di documentare, denunciare, raccontare. Autocensurarsi non è semplice e, molto spesso, non è giusto. Anche se molti cedono con troppa facilità alle lusinghe dell’informazione-spettacolo, della notizia strillata, della foto da premio internazionale. Tanto poi ci pensano i giornali che, almeno con i lettori, sono gentili e rispettosi. Li avvisano che quelle immagini (spesso palesemente offensive per la dignità delle vittime) potrebbero turbarli e, perfino, ferire la loro sensibilità. Sapendo bene che quell’avviso avrà l’effetto di un vasetto di miele in un luogo pieno di mosche.

Enrico Pinna

 

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