Cronaca di una figuraccia mondiale

La storia inizia con la proclamazione dei vincitori del World Press Photo 2015, il più importante contest di fotogiornalismo mondiale che, come ogni anno, è seguita da polemiche di vario genere. Stavolta non è la foto vincitrice a scatenare le reazioni, ma il premio assegnato al fotografo italiano Giovanni Troilo, il cui titolo è: “La Ville Noir – The Dark Heart of Europe”, che racconta la disgregazione sociale della città di Charleroi, in Belgio.

Troilo, vincitore del primo premio nella categoria Contemporary Issues, ha realizzato il suo lavoro con ampio ricorso allo staging, cioè all’utilizzo di foto “posate”, per rappresentare situazioni di degrado sociale e di depravazione morale estremi. Una di queste immagini, una scena di sesso in auto in un parcheggio per scambisti è addirittura interpretata dal cugino del fotografo. Un’altra, presentata con una didascalia che suggerisce che la persona ritratta vive reclusa in casa per fuggire alla violenza del quartiere, è Philippe Genion, noto personaggio di Charleroi e conosciuto perché ama posare in foto senza maglia; il suo quartiere è relativamente pacifico e la sua casa funge anche da wine bar.

Durissima la reazione di Paul Magnette, sindaco di Charleroi, che accusa il fotografo di aver travisato volontariamente lo spirito del luogo utilizzando tecniche di messa in scena che drammatizzano immagini e situazioni. “Il fotografo — scrive nella lettera al WPP — ha dichiarato di aver svolto un lavoro di giornalismo investigativo che riflette la città. Ma questo non potrebbe essere più lontano dalla realtà: le didascalie false e fuorvianti, la realtà traviata e la messinscena, tutto questo è profondamente disonesto e non rispetta l’etica giornalistica».

Anche Jean Francois Leroy, direttore del festival di Perpignan, usa su Facebook toni duri, annunciando che le foto di Troilo non saranno esposte al festival:  “I fotogiornalisti che vogliamo rappresentare non invitare loro cugini a fornicare in auto. I fotogiornalisti che vogliamo proporre non aggiungono un flash dentro un Humvee (veicolo militare n.d.r.) per mettere in luce il volto di un soldato in Iraq. I fotogiornalisti di cui siamo orgogliosi di presentare il lavoro non chiedono al loro soggetto di togliersi la camicia e non lo illuminano con attrezzature da studio per farlo assomigliare ad una pittura olandese.”

Troilo si difende affermando che il suo non è un  reportage o un’indagine sociale ma un lavoro di “Storyelling” che riflette comunque una realtà che lui, figlio di emigrati, conosce bene. Aggiunge che tutto questo era ben chiaro nella presentazione delle immagini.

Quindi Troilo non ha mentito, anzi la giuria era perfettamente a conoscenza che molte di quelle foto erano frutto di una messinscena. Aggiungo che quella sorta di reportage (o storyelling che dir si voglia), offre ben pochi riferimenti in merito al contesto. La città di cui Troilo vuole mostrare il volto degradato è riconoscibile solo in pochi scatti. E le foto (di cui postiamo una breve gallery tratta dal sito WPP prima della rimozione) non riescono a raccontare niente senza l’attenta lettura delle didascalie.

Il WPP tenta, in un primo momento di difendere il fotografo ma poi, rendendosi ben conto del madornale errore, cerca affannosamente una via d’uscita ed apre un’istruttoria sul lavoro presentato. E trova subito una scappatoia: come riferisce il comunicato ufficiale nel sito WPP una didascalia presentava una foto scattata a Molenbeek come se fosse stata fatta a Charleroi. Il fotografo ha quindi violato le regole del concorso. Il premio viene revocato e le foto rimosse dal sito WPP. Ma non potevano controllare prima? E non è più grave accettare un lavoro dichiaratamente recitato in un concorso di fotografia giornalistica e documentaria?

La figuraccia mondiale della giuria del celebrato concorso deve indurre alcune considerazioni. Intanto viene pacificamente accettato il fatto che il fotografo non colga immagini di una realtà vista ma ne costruisca altre che asserisce essere comunque fedeli. Viene cioè accettato che un racconto fotografico possa essere messo in scena con figuranti, amici e parenti dell’autore che recitano una sorta di “fiction” di cui il fotografo può controllare luci, ambientazioni, orchestrazione estetica.

Quindi, estendendo il concetto, per portare a casa un reportage di guerra non occorre andare in posti pericolosi, rischiare una pallottola, spendere un sacco di soldi. Bastano un’accorta messa in posa di persone armate fra ruderi irriconoscibili, un set di luci e il gioco è fatto. Tanto tutte le guerre si somigliano e l’importante è la storia raccontata dalle didascalie.

Sappiamo bene che molti grandi fotografi hanno usato la recitazione per ottenere foto celebri: Doisneau, Rosenthal, Smith lo hanno fatto. Lo stesso miliziano di Capa non è immune da sospetti.

Ma queste cose sono emerse in seguito. Qui ci troviamo di fronte ad una giuria di un premio di fotogiornalismo che scientemente sceglie un lavoro di dichiarata personale ricostruzione della realtà certificandone, con un premio, la liceità. Questo significa allargare in maniera molto discutibile i confini del reportage.

Ai giornalisti della parola non chiediamo notizie romanzate ma notizie vere, verificate personalmente da fonti dirette (e non attraverso i racconti di parenti o conoscenti), elaborate secondo il proprio personale orizzonte culturale e raccontate con onestà.

Ai giornalisti dell’immagine non chiediamo “belle fotografie” né rappresentazioni poetiche della sofferenza. Chiediamo fotografie che raccontino realtà o frammenti di essa, prelevati nei luoghi dove si svolgono i fatti, che significhino e sintetizzino (pur filtrati dal punto di vista del fotografo e secondo i suoi canoni espressivi) le notizie.

Credo sia poco utile alla causa del fotogiornalismo la ricostruzione fotografica premeditata e recitata della realtà. Anche se il l’autore autocertifica solennemente che è una ricostruzione veritiera.

Enrico Pinna

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