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Bellas mariposas, quando il film non delude il lettore

Andare al cinema e vedere Bellas Mariposas di Salvatore Mereu, sapendo dei dieci minuti di applausi che l’hanno accolto a Venezia, riempie di attese. La curiosità è tanta, anche perché questa volta sul grande schermo è arrivata Cagliari. Non è la Cagliari dell’aperitivo a Castello o del dopo cena in Marina, né delle passeggiate in Via Roma o della pausa caffè in Piazza Ienne; Bellas Mariposas catapulta tra i palazzoni di Sant’Elia, quelle costruzioni grigie che si vedono sullo sfondo delle strade per il Poetto o Calamosca, quasi una città a parte, volutamente costruita a parte.

Le parole di Cate trasportano in un mondo di personaggi surreali, dove la realtà supera la fantasia. Le pittoresche vicissitudini della Signora Sias e di Federico, della Signora Nioi e della famiglia Corduleris, improbabili vicini di casa del clan Frau, strappano più di qualche risata agli spettatori in sala; per non parlare del “colorito” modo di esprimersi dei Frau… Con pochi tratti, tutti i personaggi acquistano una propria autonomia. Mereu porta in scena gli stereotipi associati dal cagliaritano medio al mitico quartiere di Sant’Elia, tratteggiando una realtà grottesca ma forse ancora più vera del testo di Sergio Atzeni, pubblicato postumo e non ancora inviato all’editore al momento della morte.

Ci sono la miseria, la droga, la prostituzione; si ride ma con l’amaro in bocca di fronte agli occhi grandi di Caterina, testimoni impietosi e onesti, che mai, una sola volta, fingono di non vedere. Cate parla una lingua da grandi e vive in un mondo da grandi; per chi ama etichettare e incasellare tutto, è una “bambina cresciuta troppo in fretta”, ma resta sempre una bambina che si affaccia all’adolescenza.
È questa la “magia” di Bellas Mariposas, il tocco che valorizza le parole di Atzeni, permettendo alle due protagoniste di non essere ancora contaminate dalla violenza in cui vivono, ma di riderne in maniera sciocca e, a tratti, ingenua. Anche nel loro mondo, crudo e
sporco, c’è spazio per i sogni (diventare una rockstar) e le favole. La fata turchina avverte tutti del proprio destino; i cattivi scompariranno magicamente e l’amicizia tra Cate e Luna, “sorelle e più che sorelle”, diventerà ancora più speciale; e, forse, un giorno arriverà anche il principe azzurro.

È il trionfo dei sogni dell’infanzia, una favola forse difficile da accettare, in contrasto con lo squallore che lo sguardo di Cate, onesto come solo quello di un bambino può essere, obbliga a guardare. Almeno per un momento, siamo invitati ad abbandonare gli stereotipi, ad abbandonare l’idea del “classico” film di denuncia sociale, reclamato dalla crudezza del racconto, e a sorridere di fronte al “lieto fine” di Cate e Luna, due belle farfalle, né più né meno delle ragazzine nei bei costumi alla moda che le guardano con superiorità, mentre cercano d’intrufolarsi in uno stabilimento del Poetto. Anche loro meritano di vivere la propria favola, di spiegare le ali e di sognare di iniziare finalmente a volare.

Morena Deriu

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