Al Lazzaretto le tante visioni della fotografia di viaggio

«Il viaggiatore saggio — scriveva J.E. Crawford Flitch nel suo libro “Mediterranean Moods” — non parte per conquistare un paese, ma per esserne conquistato». Lo scrittore inglese venne nell’isola nel 1911 ignorando le descrizioni geografiche, consuetudine dei precedenti visitatori, ma cercando per primo, con la tattica di una «magistrale immobilità» di comprendere l’animo dei Sardi.

Anche il fotografo saggio non parte per raccontare una storia, per conquistare luoghi e paesaggi da descrivere, magari con il filtro del luogo comune o del già visto. Il fotografo saggio parte per farsele raccontare, le storie, per attendere di cogliere, con il suo occhio e la sua grammatica visuale, quello che spesso sfugge al fotografo frettoloso. Così può portare a casa una sua visione, certo personale e parziale, ma indubitabilmente più profonda ed originale.

La mostra “3 Paesi”, visitabile al Lazzaretto di Cagliari sino al 2 marzo, curata da Emanuela Falqui e organizzata dalla Galleria S’Umbra è, certamente, un esempio di reportage fuori da schemi e da facili generalizzazioni. Tre fotografi raccontano tre paesi di cui esiste un’ampia e stratificata collezione di luoghi comuni fotografici.

Erik Chevalier espone immagini di Cuba risparmiandoci vecchie automobili o colorate fumatrici di sigaro. «Sono partito — racconta Erik — ospite dell’Ambasciata Italiana e sono entrato in contatto con un cordiale mondo di artisti in qualche modo autorizzati ad essere moderatamente dissidenti. Pian piano ho scoperto una sorta di dittatura morbida, dove si può criticare tutto (tranne l’intoccabile Fidel) ma senza esagerare. Una censura sottile e spesso, cautamente, autoimposta». In quella che è una contaminazione fra mostra ed installazione il fotografo racconta, usando figure retoriche come l’ironia e il paradosso, un paese dove, sotto traccia si coglie una realtà diversa da come appare. Un paese dove non si vive poi male, ma dove è necessario, per prudenza, sfumare gli occhi del giovane dissidente per non renderlo identificabile. A questi occhi offuscati fanno da contrappunto gli occhiali di Fidel Castro simbolo di un potere dalla vista fin troppo attenta. Icone come l’onnipresente Che Guevara diventano la foto di una maglietta le cui pieghe ne deformano in maniera grottesca i tratti. Le didascalie, tratte dall’album di figurine “Trionfo de la revoluciòn caìda de Batista” rendono amaramente surreali molte immagini.

Luca De Melis ci porta immagini dalla Cina tenendosi lontano dal mito e dai paradossi del miracolo economico ma soffermandosi su una visione di ruralità pur presente e preponderante ma nascosta e quasi negata nell’iconografia ufficiale. «Sono partito — racconta Luca — al seguito di un amico che andava a trovare dei parenti che vivono in un enorme centro rurale che, pur contando un milione di abitanti, ha mantenuto un’economia e una struttura sociale tipica del villaggio. Niente ricordava i simboli della nuova Cina». La scelta narrativa del fotografo è andata ad un bianco e nero ovattato, dai contorni morbidi e dai tratti tipici del pittorialismo ottocentesco. Una fotografia quasi contemplativa di un mondo in pericolo. Una metafora di resistenza inconsapevole allo sfruttamento selvaggio delle risorse, all’industrializzazione forzata, al mito della crescita ad ogni costo. In una teca un vecchio e nostalgico album di famiglia comprato ai mercatini è ricordo di un passato dove questi simboli dell’individualismo erano odiati dalle guardie rosse di Mao il cui ritratto, peraltro, compare ancora appeso a tante pareti, come se il tempo si fosse fermato. Il reportage lascia trasparire un presente placido fatto di ataviche certezze, lontano dai miti della modernità che, lo sappiamo, incombono minacciosi nascosti dalla nebbia che fa da sfondo a molte immagini.

Alessandra Spano racconta il Ghana con una scelta espressiva meno risoluta. Un reportage ancora in itinere (la fotografa è di nuovo in Ghana anche per seguire un altro progetto) dove il bianco e nero si alterna al colore. Le immagini raccontano grandi spazi aperti, soffermandosi anche su figure umane, raffigurate spesso monche, mancanti del viso, ribaltando così la priorità della normale lettura fotografica. La visione è ampia, grandangolare, quasi a lasciare all’occhio dell’osservatore il fascino (e l’onere) di cogliere una sua personale percezione delle cose. Un racconto abbozzato, aperto a tante interpretazioni, quasi alla ricerca di una oggettività che vuole realizzarsi attraverso l’inclusione del maggior numero di elementi possibili nell’inquadratura. Un lavoro dove il bianco e nero prevale per carattere ed omogeneità narrativa sulle immagini a colori, caratterizzando con decisione spazi urbani e ampi paesaggi.

Una mostra dove i tre fotografi hanno seguito i consigli di J.E. Crawford Flitch andando alla ricerca dello spirito del “viaggiatore saggio”, lasciandosi trasportare docilmente in un itinerario che non è di conquista ma di ricerca, a volte anche intima e personale. Solo allora la loro fotografia si fa racconto, a volte ironico, a volte amaro, sempre attento e mai banale.

Enrico Pinna

 

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