“Di madre in madre”: A Sa Illetta il viaggio nel matriarcato di Anna Marceddu

Tutto inizia con l’immagine della Perda Pintà, la stele di Boeli di Mamoiada risalente al 3500 a.c. i cui cerchi concentrici sono i simboli del culto della Dea Madre, venerata dal popolo dei nuraghi, portatrice di fertilità ed abbondanza. Da qui si snoda un percorso affascinante e silenzioso, quasi sacro. Tante madri unite da una fitta ragnatela di fili i cui percorsi tortuosi si incrociano per legare simbolicamente le mater nuragiche di pietra con i ritratti delle Madri barbaricine. Sono i fili della storia che si riannodano per rappresentare tradizioni millenarie.

“Di madre in madre”: la mostra fotografica di Anna Marceddu allestita da Bruno Meloni dentro la sede cagliaritana di Tiscali, a Sa Illetta , aperta sino al 31 ottobre è un viaggio simbolico attraverso i frammenti di quell’universo matriarcale che ha costituito l’organizzazione della società rurale sarda sino a poco tempo fa.

Partendo dalla frammentarietà del patrimonio artistico isolano legato al culto della Dea Madre e dell’elemento femminile, la mostra propone un punto di vista nuovo che utilizza la sfera dell’immagine e della comunicazione visiva come strumento di dialogo tra discipline differenti e le rappresentazioni tutt’ora esistenti della donna.

Quei volti, solcati dalle rughe del tempo, dallo sguardo ora fiero, ora schivo, sempre dignitoso raccontano di vite vissute con sacrificio ma con un ruolo centrale nella società. «Raccontano — dice la fotografa Anna Marceddu — di una sacralità femminile, di donne che hanno trasmesso il loro sapere realizzando in questo modo quello che io penso sia il vero significato di matriarcato.»

L’autrice è entrata, in punta di piedi, nei loro mondi, nelle loro vite che hanno conosciuto sacrifici, dolori, duro lavoro, percependo la solennità ancestrale del loro ruolo silenzioso, del loro essere madri, mogli, tessitrici di fili e di relazioni sociali, depositarie di antiche leggende e di saperi un tempo sacri e rispettati. Ha isolato i loro volti in un lavoro di semplificazione, di ritorno al simbolico che parla attraverso i loro sguardi e il loro semplice abbigliamento.

 

La ricerca di Anna Marceddu indaga con i moderni strumenti tecnologici come luci, fondali e fotocamere digitali, un mondo antico e millenario che scompare per fare posto, venute meno le ragioni sociali del matriarcato, ad una società falsamente paritaria ma intimamente e tenacemente maschilista, dove per le donne restano immutate fatiche e sacrifici non sempre condivisi.

E sono in molti a mettere in dubbio l’esistenza di una antica società matriarcale nell’Isola. “A comandare era comunque l’uomo”, affermano i negazionisti, dimenticando che in Sardegna le donne potevano ereditare, aprire esercizi commerciali, amministrare il denaro, occuparsi, in autonomia, delle faccende legate all’economia domestica. Una posizione ben diversa dalla subalternità totale di altre società coeve.

Un ruolo sociale importante che ha forgiato un’indole forte e tenace che suscitava l’ammirazione di Giuseppe Dessì, l’indimenticato autore di “Paese d’ombre”, che scrisse nel 1950: “Guai se in Sardegna non ci fossero simili donne. Saremmo senza remissione riprecipitati nella barbarie di cui stiamo sempre sull’orlo. [….] E non credo che sia esagerato affermare che le catalogate virtù di cui noi, uomini sardi, ci fregiamo, e che rientrano nella categoria generica e appariscente della virilità, non siano altro che riflessi di vere, profonde, silenziose e solide virtù femminili a cui nessuno ha finora pensato di dare un nome”.

Enrico Pinna

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