I dannati dell’Asinara e la fotografia che mostra e non dimostra

E’ una storia interessante quella dei “dannati dell’Asinara” raccontata in un mio recente post (cliccare qui). Una vicenda che si presta ad approfondimenti non solo storici ma anche fotografici. Ho fra le mani una delle prime copie di “Asinara, isola piccola Grande Storia Prigionieri e Profughi della Prima Guerra Mondiale pubblicato da EDES Editrice Democratica Sarda, fedele riedizione dell’album ritrovato nell’Archivio di Stato, che ha riportato all’attenzione questa tragica pagina di storia, corredato da un libro che contiene le interessanti analisi degli autori. E’ un prodotto editoriale splendido, il cui pregio giustifica pienamente il suo prezzo di copertina. La visione completa delle foto e dei documenti e il confronto con altri riguardanti l’argomento mi suggeriscono alcune considerazioni sull’uso della fotografia in questa vicenda dimenticata.

Le immagini pubblicate sull’album, stampato subito dopo la guerra, non sembrano certo rendere una visione obiettiva della tragedia. Salvatore Ligios, nel suo commento alle foto, si pone giustamente alcune legittime domande. Chi ha scattato — si chiede Ligios — quelle immagini? E chi ha deciso la messa in posa dei soggetti?

Penso che quelle immagini non potessero essere realizzate senza il consenso del Ministero della Guerra e la presenza di fotografie aeree, realizzate verosimilmente da un dirigibile, avvalora la mia tesi. Considerati i tempi (L’Italia era in guerra) ipotizzo che le fotografie siano opera della Sezione Fotocinematografica del Regio Esercito Italiano, una sezione, composta da numerose squadre variamente attrezzate e specializzate, appositamente creata per occuparsi di documentare tutti i fronti di guerra e anche di realizzare le immagini da distribuire alla stampa. É verosimile che un obiettivo strategico come l’Asinara sia stato documentato proprio da una di queste squadre . “Il lavoro di questa speciale sezione — scrive Italo Zannier nella sua “Storia della fotografia Italiana — era rigidamente controllato in caserma e le fotografie erano accuratamente selezionate. Immagini realizzate mettendo spesso in posa i soldati in un sistematico campionario di situazioni che furono poi modello per l’Istituto Luce”.

La professoressa Assunta Trova, coautrice del libro fa un’analisi più circostanziata dell’album: «Bisogna premettere— dice con la cautela di chi analizza la storia attraverso i documenti — che non abbiamo ritrovato, al momento, nessun documento di incarico per questo lavoro. Ignoriamo quindi il “committente” e le finalità precise di un album passato dall’Istituto Superiore di Sanità all’Archivio Centrale dello Stato; si tratta di una testimonianza importantissima soprattutto per le carte che mostrano gli edifici costruiti ex novo durante la permanenza dei prigionieri, per gli importanti grafici sulla mortalità dei reclusi, per le cartine che dimostrano come si sia proceduto nell’arco di poche settimane alla creazione di nuovi campi. Un album da leggere nella sua interezza per essere pienamente compreso. Certo la fotografia non è esplicita, la morte non è rappresentata in nessuna immagine. Ma, ripeto, la mancanza di molti importanti tasselli non lascia, per ora, spazio a conclusioni».

Da parte mia aggiungo, con meno cautela, che chiunque le abbia richieste, quelle foto sembrano confezionate per trasmettere una visione di normalità che, come ben sappiamo, tale non era. C’è la ricerca di un’atmosfera volutamente rilassata, accentuata dalla colorazione ad acquerello delle foto, che rende scene a metà strada fra una tranquilla vita di caserma e un bucolico campeggio ante litteram.

 

Dieci anni dopo, nel 1926, viene pubblicato dall’Ufficio Storico del ministero della Guerra la “Relazione del campo di prigionieri colerosi all’isola dell’Asinara nel 1915-16 (guerra italo-austriaca) (cliccare qui). è il diario del Generale Carmine Ferrari, comandante, all’epoca, del campo dell’Asinara, che fa un minuzioso e quasi giornaliero resoconto dei fatti e mostra immagini dal contenuto completamente diverso. Qui compaiono foto di cadaveri, il grande cimitero (in altre parole la fossa comune), gli attendamenti. Quale può essere il motivo di una pubblicazione, da parte dell’esercito, così diversa dalla precedente e tardiva rispetto ai fatti? Ci viene ancora in soccorso la Professoressa Trova.

«La gestione di Ferrari — dice — era stata oggetto di numerose critiche anche all’interno dell’esercito. Posso ipotizzare che, con la pubblicazione del suo diario e di foto molto esplicite, Ferrari volesse dimostrare di aver gestito una situazione disperata e di aver creato, in soli sei mesi, le condizioni per il trasferimento ordinato dei prigionieri verso la Francia».

Le foto, di taglio e contenuti completamente diversi da quelle pubblicate in precedenza, sono state certamente scattate da persone e strumenti diversi. Sembrano istantanee realizzate con una piccola macchina portatile. Giusto in quegli anni la Kodak metteva in produzione una fotocamera dal prezzo contenuto e di facile uso, che pubblicizzava così: “Ogni ufficiale e soldato dovrebbe provvedersi dell’apparecchio fotografico Vest Pocket Kodak: col suo piccolo formato e minimo peso può essere comodamente portato in una tasca della divisa, senz’alcun disturbo”.

kodakAlpini

Foto a parte il diario di Ferrari non dice, forse, tutta la verità. Un terzo recente libro, “I dannati dell’Asinara” di Luca Gorgolini edito da Utet racconta, esaminati numerosi documenti e testimonianze, di drammatiche carenze di cibo, acqua, vestiario con azioni di sopraffazione e conflitti etnici che, certamente, hanno portato a provvedimenti disciplinari anche forti che il diario omette o minimizza. “Le testimonianze raccolte —scrive Gorgolini — descrivono una condizione ambientale, su molti punti ben distante dai toni ottimistici presenti nella relazione di Ferrari…”

Ora, al di là della storia che Assunta Trova e Giuseppe Zichi stanno pazientemente ricostruendo, voglio focalizzare l’attenzione sull’uso delle immagini. La fotografia, in quegli anni, era ancora molto giovane eppure i meccanismi di utilizzo astuto della comunicazione visiva appaiono già perfettamente oliati. I diagrammi e i numeri pubblicati non mentono, anzi ammettono che all’Asinara si è consumata un’autentica grande tragedia.

Ma i numeri parlano al cervello, mentre la fotografia parla al cuore, alla pancia, tocca le emozioni. Ecco quindi che, a seconda di come si vuole influenzare la percezione del lettore, le immagini a corredo sono ora rassicuranti paesaggi acquerellati a mano, oppure shoccanti ed esplicite foto in bianco e nero di cadaveri.

Le fotografie — scrive Ferdinando Scianna — mostrano ma non dimostrano. Eppure la tentazione di usarla come prova inoppugnabile è stata viva fin dai suoi albori. Già allora si conosceva la doppiezza dell’immagine che sa mentire fingendo di essere sincera.

Ma forse bisogna, una volta per tutte, assolvere la fotografia e concludere che aveva ragione Lewis Hine, fotografo e sociologo statunitense quando diceva: “la fotografia non sa mentire, ma i bugiardi sanno fotografare.

Enrico Pinna

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