Daniela Zedda, eletta Donna Sarda 2016 dal Lioness Club: l’intervista

Quest’anno è finalmente una fotografa la “Donna sarda 2016” del Lioness Club. Daniela Zedda, cagliaritana, ha intrapreso il suo viaggio nella fotografia nel 1982 con un percorso professionale ricco di importanti collaborazioni, di pubblicazioni e di mostre in Italia e nel mondo. Presenza fissa a Gavoi, ha esposto anche a Parigi, Budapest, Praga e, per due volte, a New York. Non c’è artista che sia sbarcato un Sardegna senza passare attraverso le lenti della sua fotocamera.

Della premiazione, avvenuta nella Sala consiliare del Comune di Cagliari, hanno dato conto tutti i quotidiani. Con questa intervista, che è stata più una conversazione in un clima meno “ufficiale” e più rilassato, provo ad approfondire l’universo interiore di una delle protagoniste di spicco della fotografia sarda.

Un riconoscimento importante e finalmente ad una fotografa…

Per me è stata una cosa inattesa, anche perché sono abituata a stare dall’altra parte. Fa piacere che venga riconosciuto l’impegno mai venuto meno in tutti questi anni.

Forse non viene riconosciuto solo l’impegno…

Per me è difficile giudicare. Come ho detto io sto dall’altra parte.

Ogni fotografo cerca qualcosa nella fotografia. Cosa cerca e cosa trova Daniela Zedda?

Ho iniziato da autodidatta fotografando i concerti (mi piace la musica) e allargando piano piano il mio orizzonte. La fotografia per me è un mezzo per trovare percorsi nuovi per leggere la persona, per vivere le situazioni come percorso di coinvolgimento emotivo. Ogni fotografia è qualcosa che va costruito, è un momento di tensione, di introspezione. Quando la foto è scattata è un sollievo, sono felice di lasciarla andare, di liberarmene, di lasciare agli altri il compito di leggerla secondo il proprio codice visuale.

Quindi applichi alla fotografia quanto diceva Joseph Conrad precursore e teorico della narrazione modernista: “Un libro si scrive soltanto una metà, dell’altra metà si deve occupare il lettore”:

Sono assolutamente d’accordo. Una foto ha tanti significati, tante sfumature, tante letture. All’osservatore è lasciato il compito di leggerla secondo il proprio bagaglio emotivo e culturale.

Ci sono personaggi che ispirano il nostro lavoro. Quali sono i tuoi maestri?

Sicuramente Henry Cartier-Bresson per l’essenzialità dei suoi scatti a la genialità delle sue interpretazioni. Poi Bruno Zevi che non è un fotografo ma un architetto. “Per imparare a capire l’architettura — scrisse nel suo celebre libro Saper vedere l’architettura — occorre, innanzi tutto, comprendere…” Penso che questo debba essere sempre applicato anche alla fotografia.

Siamo sommersi da una quantità di immagini indistinguibili. Smartphone e Social Network stanno cambiando la percezione della fotografia. Cosa ne pensi?

Innanzi tutto penso che la maggior parte di quelle immagini sono destinate ad esser consumate e subito dimenticate. Fra cent’anni nessuno riuscirà più a leggere quei file e la fotografia perde una sua funzione fondamentale che è la memoria. Rilevo poi la totale assenza di regole nel loro fotografare, regole che sono fondamentali, a mio avviso, nell’educazione alla visione. Si nota anche che le fotografie sono in genere autocentrante: IO in pizzeria, IO al mare, IO… Penso che la fotografia debba raccontare soprattutto gli altri. Il fotografo sta dall’altra parte.

Hai insegnato e insegni ancora nelle scuole. Non pensi che alla base ci sia anche una mancanza di educazione alla visione?

Si, anche perché in Italia si fa poco per promuovere la cultura artistica nelle scuole non specialistiche. Poi la fotografia è, anche nelle scuole artistiche, quasi un’arte minore.

Hai girato l’Europa per riportare simbolicamente a casa tanti Sardi che hanno cercato e trovato fortuna lontano. A quale progetto stai lavorando ora?

Stavolta sono i centenari sardi i protagonisti del mio lavoro per un progetto voluto dall’azienda  Argiolas di Serdiana nell’ambito dei loro programmi di promozione. Ho cercato di fotografarli fuori dalle loro case, in luoghi e scenari simbolici del loro mondo. Un lavoro che mi ha coinvolto emotivamente che andrà in mostra a Milano e poi in Sardegna.

C’è qualcosa che accomuna questi patriarchi?

Una sensazione curiosa: tu leggi nelle loro rughe i segni del tempo, ma quando parli con loro sembrano vivere in una dimensione atemporale a noi sconosciuta. Ormai alleggeriti dal problema di invecchiare sembrano tutti persone che navigano con semplicità e purezza d’animo sul mare del tempo come se il suo scorrere non li riguardasse.

Attendiamo questo nuovo lavoro con la certezza che sarà caratterizzato, come tutti i reportage di Daniela, da una perfezione estetica, da una cifra stilistica mai fine a sé stessa, ma espressione della sua cura minuziosa del particolare, della sua visione profonda della fotografia e dell’applicazione rigorosa delle sue regole. Che nel suo caso, sono poche ma molto importanti: comprendere, vivere le situazioni, entrare in sintonia con le persone. Questa è la differenza, il limes, superato il quale una bella immagine diventa Fotografia.

Enrico Pinna

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