La sardità di D’Annunzio: il Dna scoperto dai Ris di Cagliari, la Spendula e il Nepente

Non lacrime, ma liquido seminale su un fazzoletto. Non fa parte della galleria degli orrori di un feticista ma è addirittura un pegno d’amore del Vate, lo scrittore e poeta Gabriele D’Annunzio. La fortunata, la contessa Olga Levi Brunner, l’aveva ricevuto in qualità di amante. Ora, passati i tempi dei bollenti spiriti il reperto è stato utile per rintracciare il suo Dna. La scoperta e il lavoro rigorosamente scientifico è stato portato avanti dagli investigatori del Ris di Cagliari, comandati dal colonnello Giovanni Delogu. Con tanto di incroci con altri oggetti (forniti dalla Fondazione Il Vittoriale degli Italiani di Gardone Riviera) e le tracce biologiche di alcuni discendenti di D’Annunzio e tutto torna.

E così dall’Abruzzo alla Lombardia si è finiti in Sardegna in cui l’impresa di avere la mappa genetica di D’Annunzio è riuscita. Ma a parte l’ardire dei Ris e, il fazzoletto con cui sono stati messi alla prova, ci sono altre due luoghi sardi che da sempre legano il poeta all’Isola. Una è la cascata di Villacidro, nel Medio Campidano, La Spendula, a cui ha dedicato una poesia, ovviamente poi tradotto in limba. D’Annunzio vi era stato in visita nel 1882, lo stile è riconoscibile e non manca nell’ultima strofa il riferimento bucolico al pastore tipo rimasto poi nell’immaginario italico: “Ne la conca verdissima il pastore come fauno di bronzo, su ‘l calcare, guarda immobile, avvolto in una pelle“. Ed è sempre legato a una sua visita l’altro ricordo di D’Annunzio: a Oliena bevve il Nepente. E ne fu folgorato. Tanto da scrivere nella prefazione della guida “le osterie d’Italia” di Hans Barth, una sorta di recensione: “Non conoscete il Nepente d’Oliena neppure per fama? Ahi, lasso!”. E di nuovo il riferimento estatico ai paesaggi sardi: “Io son certo che, se ne beveste un sorso, non vorreste mai più partirvi dall’ombra delle candide rupi, e scegliereste per vostro eremo una di quelle cellette scarpellate nel macigno che i Sardi chiamano Domos de Janas, per quivi spugnosamente vivere in estasi fra caratello e quarteruolo”.

Mo. Me. 

 

 

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