Festival di Seneghe, Patrizia Valduga: “Combatto la paura con la poesia”

Esile, sottile, elegantissima. “Sono solo un piccolo epigono” si schernisce. E poi lascia tutti col fiato sospeso recitando versi in lingua Farsi o rime dell’amato Gioacchino Belli. Patrizia Valduga, poetessa italiana attesa ospite del Festival di poesia di Seneghe, sul palco della Piazza dei Balli, domenica sera arriva leggera ed emozionata, con un bicchiere di Vermentino in mano per combattere l’ansia della platea. “Mi hanno presentato come una grande poetessa, ma io mi reputo solo un interprete. Anche un po’ psicopatica”. Chi la conosce racconta di una donna schiva, che vive in una casa milanese che ricorda una grande biblioteca, con ampie teche in cui custodisce scarpe e copricapi, e un bagno enorme, con le foto autografate dei grandi autori amati a tappezzare anche la vasca.

“Viaggio molto, ma questa piazza stasera è un’eccezione mirabile, ci siete voi, i sardi, e non solo i turisti. Mi avete accolta con un’ospitalità regale. Grazie.  Ma in fondo nella mia vita ho sempre e solo studiato, scritto e tradotto. Oggi ho 63 anni, e alla fine ho scritto un bel po’ di cose. Con alcune spesso spesso non ho fatto nemmeno una lira, con le traduzioni invece, è andata meglio. Sono anche riuscita a comprarmi una casa”.

Quando inizia a leggere, il silenzio si fa come di pietra, e la sua voce strascicata, appesa, amplificata, è come attraversata da un’energia più grande, che passa sotto pelle e ci rimane.  “Appartengo a una generazione che imparava le poesie a memoria, i miei lavori per esempio, finiscono quando li recito a memoria. Leggo come mi sento, come mi viene spontaneo, seguendo l’istinto, ma ho capito che è stato un destino quello di leggere poesia, fin dalla prima elementare mi facevano sempre leggere”. Recitare a memoria come terapia contro il dolore, la paura, il panico. “Sono un distributore automatico di versi: in metropolitana quando mi veniva paura recitavo Prati, e quando non funzionava più cambiavo poeta. E’ così che ho  imparato molte poesie. E’ la mia cura personale dell’anima”.

Il 16 settembre saranno dodici anni che Giovanni Raboni, il grande poeta, scrittore e compagno di vita non c’è più. “E sono 12 anni che mi sento sola, ci provo a rinnamorarmi, ma non funziona. L’ultima volta che ho avuto un compagno è stato cinque anni fa, sembrava anche mi volesse bene. Ma quando la sera mi facevo sexy per lui, manco mi degnava di uno sguardo. Quel tizio voleva solo stare con la poetessa”.

La poesia come altra lingua, diceva Raboni, più ricca e completa, premeditata e involontaria, capace di connettere visibile e invisibile, e mentre legge le parole dell’amato che oggi non c’è più, la voce si fa ancora più liquida, dolorosa. “Un giorno, parlando con un fisico, ho capito perché mi piaceva tradurre poesie in Farsi: era il mio Punto di Sella, dove ragione e sentimento rimangono in equilibrio. Succede anche nell’arte, nella scrittura: stiamo bene con noi stessi e, all’improvviso, sentire, essere e capire diventano una sola cosa”.

Donatella Percivale

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