Lo “scatto di menti” per superare il pessimismo degli sconfitti

Da Paolo Fadda, economista, amministratore del Banco di Sardegna dal 1968 al 1988, pubblichiamo questo intervento che prende spunto dall‘editoriale di Antonio Sassu, che abbiamo pubblicato nei giorni scorsi.

Non è semplice riuscire a capire quale futuro prossimo venturo attenda la Sardegna e, soprattutto, quale sia (e se c’è) il progetto dei suoi governanti per farle superare l’attuale difficile e pesante congiuntura.

Perché la lettura dei dati economici indica come l’isola stia attraversando uno dei momenti più difficili della sua storia, e che sia ad un passo di quella che viene chiamata in economia “depressione”. Cioè, per dirla con il linguaggio più crudo, la fase più acuta d’una congiuntura negativa, caratterizzata da una caduta verticale della produzione e dei consumi, da continue chiusure di fabbriche e negozi, da considerevoli aumenti dei fallimenti, da una scomparsa degli investimenti, e, soprattutto, da una drammatica disoccupazione.

Quel che desta maggiore preoccupazione, è che non si intravvede un’unicità di diagnosi e di terapie, quasi si fosse dinanzi ad un malato di cui per la babele degli interventi proposti, si paventerebbe l’avvio verso una fase terminale. Preoccupa ancora il fatto che di fronte a questi mali acuti dell’economia, anche in sede di Regione, si pensi di porvi rimedio con degli analgesici, senza che si pensi, o si cerchi di individuarne le vere cause per intervenire, estirpandole, con la perizia del chirurgo.

Anche nelle discussioni politiche (quelle che animano – ça va sans dire – le riunioni del Consiglio e della Giunta regionale) si amplificano le richieste di nuove risorse al governo nazionale (dovute o pretese), ma non si accenna a come meglio utilizzarle e destinarle. Ci si accapiglia ancora su un mitico piano straordinario “per il lavoro”, non tenendo a mente che il lavoro è una variabile dipendente dal sistema produttivo; e che quest’ultimo è sostenuto dalla quantità e dalla vitalità delle imprese presenti ed attive.

Ci si divide fra chi propugna una centralità da assegnare all’agricoltura o all’industria per uscire fuori dalla crisi, come ai tempi del riformismo albertino fra pastorale e agricoltura per l’uso delle terre, senza rendersi conto che ci si è ridotti a produrre, in alimenti e beni, appena un quarto di quel che consumiamo. E che la dipendenza dall’esterno ha raggiunto in questi ultimi mesi valori sempre più pesanti e penalizzanti. Eppure, quanti masticano un po’ d’economia sanno certamente che le capacità produttive d’un territorio sono legate alla vitalità delle sue imprese e che di esse, quelle industriali manifatturiere, sono le più veloci e pronte a creare lavoro. 

Queste riflessioni così negative sul nostro futuro, potrebbero essere in qualche modo superate, per utilizzare una felice espressione dell’amico professor Antonio Sassu, se si sarà capaci di imprimere un deciso “scatto di menti” (ed un’opportuna svolta) alla nostra comunità politica ed economica.

Vogliamo provarci a proporlo? La svolta, per essere efficace, dovrebbe prevedere un deciso cambio di indirizzi rispetto al passato: non più incentivazioni a singole imprese (agricole o industriali che siano), ma sostegni mirati alla creazione di “insiemi” (organizzati per filiera o a rete) che facciano, come si suole dire, massa critica e che aiutino i singoli a tirar fuori il naso dal proprio cortile. E che, soprattutto, consentano loro di trasformarsi da microindustrie paesane ad imprese export ed high-tech oriented.

Per rendere praticabile questa strada, occorrerebbe dotare quegli “insiemi” di imprese di quegli input specifici che da soli non potrebbero realizzare (come legami operativi con centri di ricerca, con operatori del venture capital, con logistics provider, con account in mercati lontani, ecc.). Servirebbe in pratica mettere insieme una nuova politica regionale per le imprese che superi gli errori degli interventi congiunturali e degli aiuti “a fondo perduto”. Che imprima però quello scatto di reni (e di menti) necessario ed indispensabile per promuovere, realizzare e sostenere il compattamento e l’emancipazione di un sistema produttivo che è tuttora disarticolato, fragile ed impreparato, condizionato da un nanismo patologico che ne preclude e ne scoraggia l’accesso ed alla competizione nei mercati esterni.

Può essere questa una strada possibile? Potrebbe anche essere, perché quel che occorre è ribellarsi ad un destino avverso ed amaro. Vincendo quel pessimismo che ci affratella con i popoli del Mediterraneo inferiore.
C’è, in proposito, un episodio che ho ricordato recentemente nella conclusione di una biografia dedicata ad imprenditori della statura dei nuoresi Guiso Gallisai, capaci di ribellarsi con le loro industrie alle miserie ed alle difficoltà d’un ambiente ostico come quello barbaricino. Attorno nella prima metà degli anni ’50 del secolo scorso, ci fu un qualcosa che mi colpì, andando in giro per le strade dell’isola in Lambretta. Erano gli anni dell’Erlaas, cioè della battaglia ingaggiata, a suon di dollari, per liberare finalmente la Sardegna dalla malaria. Fu allora che sul muro d’un casolare, sperduto fra le campagne della Trexenta, sotto la scritta DDT e la data attestanti l’avvenuta irrorazione di quell’antidoto antianofelico, notai quanto mani ignote avevano grafitato, e che diceva pressappoco così: “Tanto vincerà sempre la zanzara!”.

Ecco, è il pessimismo degli sconfitti il male maggiore di un popolo – questo nostro – che ha sofferto per via delle troppe pesanti dominazioni e che solo raramente ha trovato la forza di ribellarsi. Ed è un pessimismo che circola nel sangue, che lo ha reso passivo ed arrendevole, anche per via di quel virus debilitante portato da quelle anopheles ritenute un nemico invincibile (e che quel DDT giunto d’oltreatlantico invece sconfisse definitivamente).
Partendo e guidato da quest’amara constatazione, se ne può ricavare l’assunto che qui nell’isola si è dato vincente, da sempre, un passivo fatalismo, non dissimile da quello di quell’arabo, che – come dice la leggenda – avrebbe ritenuto inutile piantare attorno a casa un meleto od un agrumeto, perché ne avrebbe previsto il non attecchimento…
Voltiamo quindi pagina e seguiamo l’invito di Sassu in modo da darci tutti, giovani e vecchi, uomini e donne, uno scatto di menti. Per vincere, con un atto di ribellione culturale, quel fatalismo della passività che ci rende difficile anche il presente.

Paolo Fadda

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