“Quanto spreco!”. “Che vergogna buttare il latte!”. “Sarebbe stato meglio darlo ai poveri”. “Certo che fate così, tanto avete i contributi statali”. Sono questi alcuni dei commenti che da ieri stanno inondano le bacheche Facebook. Le reazioni riguardano la decisione dei pastori sardi di riversare il latte in strada, in segno di protesta. Una mobilitazione che da nord a sud dell’Isola è diventata atto di ribellione contro gli industriali, fermi nell’intenzione di inchiodare il prezzo del latte a 60 centesimi al litro.
Ora: Facebook rappresenta la più democratica delle tribune, dove tutti – indistintamente e per fortuna – hanno il diritto di esprimere il proprio pensiero. E fin qui va benissimo: la censura preventiva o, peggio, il divieto di accesso ai social, certificherebbe l’ingresso nel campo della dittatura. Ma con sempre maggiore frequenza, sui social l’esercizio di una sacrosanta libertà sconfina nella tuttologia più ingiustificata, quando non degenera nell’insulto libero. La conseguenza è una: un attimo dopo viene la tentazione di dare ragione a Umberto Eco che già nel 2015, anno in cui la potenza feisbukiana si amava e basta, preconizzava: “I social network danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività”.
Piccola parentesi: le parole di Eco – troppo spesso- vengono strumentalizzate per sostenere l’inaccettabile revisione del suffragio universale. Tuttavia il caso del latte buttato dai pastori sardi dimostra, per l’ennesima volta, che la democrazia di Facebook finisce per indurre fastidiosi rigurgiti di rabbia moltiplicando, con una dinamica da popolo bue, sentimenti totalmente indistinti dalla verità oggettiva di un fatto.
Primo: il latte che i pastori hanno deciso di buttare per strada, è il loro. Lo hanno prodotto con pecore di proprietà, comprate e allevate con propri quattrini. Secondo: la decisione di disfarsene è ovviamente una scelta estrema, un’ultima spiaggia in una trattativa che si è arenata. Terzo: gli industriali del latte avranno anche le loro buone ragioni, ma da troppi anni vincono al tavolo del prezzo. Quarto: quando si scambia il gesto del buttare il latte con un malsano capriccio, non si è capito che gli allevatori stanno comunque perdendo 60 centesimi al litro, tanto è il prezzo attuale di mercato, anche se quel latte non è pastorizzato, quindi non si può bere, come ha spiegato in un video il pastore-cantante Andrea Rosas.
La quinta nota a margine è che Facebook sembra fatto apposta per spingere gli utenti a seguire lo stolto, guardando il dito. Ovvero le cisterne del latte svuotate sull’asfalto. Invece mai come adesso sarebbe necessario concentrarsi sul saggio che indica la luna: in Sardegna è in atto un durissimo scontro sociale; una battaglia tra ricchi e poveri; tra capitani d’azienda e migliaia di pastori che ogni giorno, dall’alba, si spezzano la schiena.
Stare dall’una o dall’altra parte, è una scelta libera. Ma non si può continuare a ripetere che sia uno spreco buttare il latte in strada. Perché dal divano di casa, digitando sulla tastiera di un cellulare, tutto è facile. Talmente facile che il reddito di cittadinanza, versione post moderna dell’assistenzialismo, è ormai diventata la nuova frontiera della felicità. Sono soldi senza alcuna fatica. I pastori, invece, vogliono continuare a mungere le loro pecore, guadagnando però una manciata di centesimi in più al litro. Venti, a essere precisi, per passare da sessanta a ottanta. Un aggiornamento del prezzo, visto che aumentano costo della vita e del lavoro. Non un obolo. E nemmeno una regalìa.
Alessandra Carta