L’assessore Maninchedda: “Pigliaru sostenga la Repubblica sarda”

Grandi opere, Abbanoa ma anche nazionalismo: in questa intervista l’assessore Paolo Maninchedda apre la sfida sulla Repubblica sarda.

“La più grande eredità negativa dell’autonomismo è l’aver generato e specializzato un acritico spirito rivendicativo, senza parallelamente dare ai sardi una solida consapevolezza dei loro doveri, verso se stessi e verso la loro terra”. L’assessore ai Lavori pubblici Paolo Maninchedda – a conclusione della serie di interviste di Sardinia Post agli assessori della giunta Pigliaru – fa il punto sui “lavori in corso” nell’Isola e, contemporaneamente,da ideologo e fondatore del Partito dei Sardi, introduce anche una delicata considerazione di tipo politico e istituzionale: “Vorrei che il presidente – dice – andasse in Aula e invitasse il Consiglio regionale a proclamare che la Sardegna è una nazione e ha diritto a stare in Europa”.

L’invito arriva a metà di un colloquio dedicato per larga parte al tema delle infrastrutture. Con un punto fermo: “Il piano straordinario delle manutenzioni non riguarderà solo le strade statali, ma anche quelle provinciali e comunali per un investimento totale di oltre 120 milioni di euro, tra le risorse Anas e quelle europee del Fondo sviluppo e coesione (Fsc)”.

Assessore, l’altro giorno il ministro Galletti ha chiesto celerità nella spendita delle risorse per il dissesto idrogeologico e lei gli ha risposto che non “accetta lezioni“. Era una difesa della Sardegna o anche un attacco alla politica italiana, come la chiamate voi indipendentisti?

Su tutto c’è stato un problema di stile tra istituzioni. Un ministro non viene in Sardegna a fare il dichiarante senza avere il garbo e la prudenza di informarsi prima sugli argomenti di cui intende parlare con il suo primo interlocutore istituzionale. Quando poi un Governo, a distanza di tre anni, ha dato a una Regione solo le briciole per il ristoro dei danni subiti dai privati con l’alluvione del 2013 (23,5 milioni a fronte di 39 necessari), è evidente che ha sbagliato destinatario nel chiedere celerità. Non che la macchina regionale non abbia inefficienze. Ma non c’è dubbio che in Italia la lentezza nell’avvio dei lavori pubblici è legata a uno Stato ingiusto, uno Stato che è un sistema di poteri orizzontali, gli uni contrapposti agli altri e con funzioni equiordinate. Per cui ogni intervento richiede iter autorizzativi lunghissimi con istanze di appello infinite.

I rapporti tra istituzioni, in questo caso tra Giunta e Governo, come andrebbero interpretati?

Intanto, dal mio punto di vista si farebbe bene a considerarli come se fossero due Stati diversi. In questo modo si costringerebbe l’Italia a stare dentro un perimetro politico istituzionale paritetico che sul piano negoziale si rivelerebbe molto più favorevole alla Sardegna. Si distribuirebbero le risorse in base al fabbisogno e non in base alla forza demografica-politica di una zona della Repubblica italiana rispetto ad un’altra.

Il problema della rinascita isolana si risolverebbe davvero proclamando la nazione Sardegna?

Direi proclamando lo Stato sardo. Il tema dell’indipendenza fa paura se letto all’interno di un’educazione e di una cultura italiane perché viene derubricato alla pericolosissima coppia nazionalismo/separatismo. Se invece si affrontasse la sovranità a partire dell’Europa, le cose sarebbero diverse. In Europa contano solo gli Stati, non le regioni. L’unica forma istituzionale per stare in Europa in maniera non subordinata, è essere uno Stato. Ce ne sono già dieci più piccoli, demograficamente parlando, della Sardegna.

Come la mettiamo col Patto italiano per la Sardegna, cioè l’accordo tra Giunta e Governo che per le sole infrastrutture ha garantito oltre due miliardi di euro?

Alla Repubblica sarda quei soldi spetterebbero comunque in quanto Stato membro. Da soli, forse, avremmo fatto anche meglio.

Paci sostiene che un miliardo e 400 milioni, sui 2,9 totali, sono frutto della vertenza Insularità portata avanti dalla vostra Giunta.

E ci mancherebbe pure che così non fosse. Il problema è che l’Unione Europea ha recentemente dichiarato che l’Italia non ha mai rappresentato nelle sedi opportune l’insularità della Sardegna. Esiste l’insularità geografica, ma grazie agli italiani, non esiste in Europa la nostra insularità politico-amministrativa. L’elemento che viene poi taciuto in tutti i Patti economici per il Sud è che in Italia il vero ritardo nella realizzazione delle infrastrutture dipende dalla crisi finanziaria della Repubblica, la quale eroga denaro compatibilmente con la sua difficile situazione finanziaria (2.200 miliardi di debito pubblico) e quindi con le esigenze della sua cassa smunta. Solo il ministro Delrio si è accorto del problema e ha fatto recepire la sua osservazione critica al Mef (ministero dell’Economia e delle Finanze).

Per la Sardegna non ci sarebbe nemmeno uno svantaggio nel diventare una repubblica?

No, non intravedo svantaggi. Lei immagini che cosa succederebbe per la Sardegna potendo determinare, per esempio, le aliquote Iva dei porti turistici non in modo conforme alla legislazione italiana, ma in modo competitivo con le tariffe applicate nel Mediterraneo, dalla Grecia passando per il Nord Africa per arrivare a Minorca e a Marsiglia. Pensiamo che cosa accadrebbe se potessimo regolare noi l’imbroglio tutto italico delle accise; immaginiamo che cosa accadrebbe rispetto ai privilegi concessi a Terna e Enel dalla Repubblica Italiana e che oggi sono balzelli e domani invece potrebbero essere opportunità; pensiamo che cosa accadrebbe se potessimo differenziare le aliquote a seconda dei settori che intendiamo sviluppare. Voglio dire: potremmo organizzare una zona franca tecnologica per dieci anni e con aliquote basse, molto basse, per gli anni successivi, per chi viene a sviluppare qui tecnologie innovative e non impattanti. Immaginiamo che cosa accadrebbe se potessimo ripensare radicalmente il sistema scolastico, emanciparlo definitivamente da ogni scoria gentiliana, renderlo più adeguato a ciò che oggi sappiamo del cervello umano e più flessibile rispetto al mondo delle professioni. Insomma, sapremmo fare tutto ciò che c’è da fare. Sapremmo certamente aumentare la ricchezza prodotta in forma sostenibile, garantendo il gettito fiscale necessario alle nostre politiche. Invece dal 1718, anno nefasto in cui la nostra Isola entrò nell’orbita italiana, non abbiamo mai potuto lavorare in modo indipendente sul nostro sistema fiscale.

Il centrosinistra, la sua coalizione, ha esultato per la chiusura della Vertenza Entrate dopo dieci anni. Ma lei, adesso, dice che non va bene.

No, anzi, va benissimo. Ogni passo in avanti va salutato positivamente ed è un buon risultato aver stabilizzato il metodo di calcolo delle entrate regionali. Io, però, mantengo la mia visione: c’è bisogno della sovranità fiscale. Questo non vuol dire che attacco chi non la pensa come noi. Il problema è convincersi tra sardi, non attaccarsi. Non sono sicuro che si possano fare cambiamenti profondi senza consenso. Noi siamo al governo della Regione perché crediamo sia necessario collaborare e dimostrare che i sardi sanno ben governarsi. È una posizione sterile e ancora integralmente italianista giudicare male chi la pensa diversamente da noi. Per cui, va bene anche la politica dei piccoli passi: pensi che sono un nostro contributo gran parte dei contenuti ideologici della vertenza Entrate.

Fino a che punto si vuole spingere col suo messaggio indipendentista?

Fino a realizzarlo con il consenso della maggioranza o della totalità dei sardi. Se tutti concorressero a costruire il futuro, si potrebbe organizzare un sistema di poteri sovrano. Su fisco, scuole, trasporti, politiche familiari e sanità. Ma quando dico che la più grande eredità negativa dell’autonomia è il non aver dato ai sardi l’orizzonte dei doveri, mi riferisco esattamente al mancato senso di responsabilità che ciascuno ha rispetto alla propria esistenza e insieme rispetto alla storia. Si attende qualcosa anziché realizzarla.

Trova che i tempi siano maturi per arrivare all’indipendenza?

Il tempo è legato a circostanze, libertà e coraggio. La cultura politica sarda è ancora dominata dall’eredità post bellica egemonizzata da cattolici e comunisti. Che sono dogmatici e considerano la libertà un fattore destabilizzante. Lo dico da cattolico, seppure eterodosso. C’è ancora oggi una parte del clero che immagina di dover svolgere il proprio ruolo governando la vita degli altri: io vedo una componente sadica in queste vocazioni. Ugualmente nel mondo post comunista esiste una parte consistente che vede come fumo negli occhi i messaggi libertari, da loro considerati cause di un mondo disordinato. Mi riferisco per esempio alla tradizione di Ernesto Rossi o a quella di Pannella. L’eredità post bellica ha inibito la costruzione del sé. Questo è un problema, ecco perché serve il coraggio. Il Pd, del resto, sta attraversando una crisi importante: non ha un’identità culturale definibile. Come la Dc, che ha retto sino alla guerra fredda perché era l’espressione dello scontro tra mondo occidentale e comunista, l’universo progressista ha fatto l’errore di costituirsi solo o principalmente come mondo anti-berlusconiano. Ma adesso che Berlusconi si è sgonfiato, specularmente anche quel mondo si è svuotato. Tanto che l’attività del Partito Democratico coincide con il suo leader e col suo programma. C’è spazio, nella crisi, per immaginare qualcosa di nuovo in Sardegna.

Le circostanze di cui parlava prima quali sarebbero?

L’attuale modello europeo è in crisi, e questa è un’opportunità. Non regge più lo schema fondato sulla Commissione e su un’enorme burocrazia. L’Europa carolingia franco-tedesca, con tutto il corredo di missi dominici che l’ha accompagnata, sta morendo. La si può rifondare con nuovi poteri, nuove sovranità come quella sarda, nuove regole.

La politica isolana risponderebbe a un suo appello per proclamare la Repubblica sarda?

Qualcuno sì e altri no, se facessimo l’appello noi soli. E poi, la Repubblica la proclama il popolo. Il problema sono i leader: di partito, di ambiente, di prestigio. Dovrebbero fare come è stato fatto in Catalogna e in Scozia: accantonare le strategie di parte per realizzare un’inversione della storia, un evento epocale. Il primo appello spetterebbe comunque al presidente Pigliaru. Io non credo che Francesco possa permettersi il lusso di fare solo l’amministratore nella crisi morale, culturale e politica che stiamo attraversando. Deve accettare il ruolo di guida politica e non può interpretarlo nel solo perimetro della collaborazione col Governo. Da una parte c’è l’esecutivo Renzi, dall’altra c’è il popolo sardo. Lui, che pure sa mettere a frutto il garbo delle relazioni con la fermezza delle posizioni, deve guidare il popolo: non necessariamente in conflitto col Governo, ma comunque interpretandone anche il bisogno simbolico di unità, alimentando la sua speranza per un futuro migliore. Il clima cambierebbe molto e anche la partecipazione sarebbe diversa con una grande svolta politica giocata sui temi della sovranità e della responsabilità, che vuol dire un nuovo soggetto politico nazionale sardo. Una proposta sfidante, in ogni caso, spetterebbe a tutti quelli che hanno responsabilità anche nel mondo della finanza, del credito e dell’impresa. Io non credo nella visione materialistica dell’uomo, quella che lo vede impegnato solo a sfidare, scappare, nutrirsi e riprodursi. Perché una visione simile finisce per affidare a chi governa solo compiti di gestione. L’uomo è di più. Dove mettiamo il desiderio? Dove mettiamo l’arte? Dove mettiamo il pianto? E Darwin diceva che il pianto è un mistero. Una visione ampia dell’uomo genera per chi governa un dovere maggiore: quello di sapere sempre di essere anche un simbolo e di dovere sempre aprire una nuova strada.

Lei nel 2004 ha creduto che il messia sardo fosse Renato Soru.

No, Messia no, io sono cristiano. Io non ho mai sacrificato a Cesare perché non credo nel valore universalistico della politica. La politica non risponde al perché di ogni uomo, ma solo al come può trascorrere la vita di un uomo. Certo, nel 2004 non avevo la chiarezza di visione che ho adesso. Soru per noi era l’uomo giusto per scuotere il sistema politico sardo: in parte ha soddisfatto questa esigenza, ma non è riuscito a centrare pienamente l’obiettivo.

Non ci sono riusciti nemmeno i democristiani con i miliardi garantiti dallo Stato attraverso il Piano della rinascita.

Del mondo autonomista procura un certo fastidio che si siano scritti la narrazione post mortem, come se fossero più interessati all’immortalità pagana, quella della gloria tra chi rimane, che non a quella cristiana. La quale è meno eroica ma più autentica perché non può essere autocertificata e prodotta.

A chi si riferisce?

A tutti i padri dell’autonomia: Luigi Pirastu, Pietrino Soddu, Renzo Laconi e Mario Melis, per non parlare dei più italianisti Segni, Cossiga o Berlinguer. I libri sulla Rinascita sarda non mancano. Anzi: abbondano. Ma è solo una narrazione autoreferenziale, un racconto costruito dai protagonisti per la paura che i posteri non li leggano per quello che sono stati. Hanno scritto una guida subdola alla lettura, attraverso gli occhiali rosa del come avrebbero voluto essere. Invece non hanno lavorato sui diritti e sui doveri del popolo; non hanno lavorato sul confronto tra potere pubblico e libertà individuali; non capivano nulla di fisco; erano condizionati dall’ossessione carrieristica del diventare prima o poi parlamentari e ministri della Repubblica italiana; si sono limitati a cercare risorse sbagliando peraltro l’allocazione principale, con la chimica. L’unico, dopo Gramsci, che ha lasciato un segno è stato Antonio Pigliaru, e molti intellettuali e politici sassaresi sono suoi nipotini talvolta volontariamente immemori della sua paternità. Pigliaru senior è il solo ad aver dimostrato robustezza nella visione dello Stato. Era un gentiliano portatore di un modello di Stato nel quale non mi riconosco assolutamente, ma supportato da un solido pensiero sulle istituzioni, sulle leggi, sull’educazione, sull’architeturra dei poteri, sulla forza coercitiva dello Stato come organizzazione anonima volta a garantire la sovranità della legge. Questa grandezza di pensiero è scomparsa negli epigoni. Ho apprezzato che Soddu non sia andato all’inaugurazione del viale a Cossiga: il suo legame con Moro era una cosa così seria da impedirgli di partecipare all’ennesimo paravento glorioso sulle colpe di Stato.

Tanti pensieri alti sulla Sardegna. Ma poi Abbanoa, la spa del servizio idrico che ha supervisione del suo assessorato, prova a ripianare i debiti imponendo ai cittadini 150 euro di conguaglio regolatore.

I conguagli non c’entrano niente col risanamento di Abbanoa. Incideranno per poco più di 107 milioni in sei anni. Questo in una società che ne incassa 300 all’anno. I conguagli sono stati applicati dall’Autorità per l’energia per l’adeguamento della tariffa, come è avvenuto in tutta Italia. Abbanoa è stata penalizzata dalla politica sarda che l’ha fatta nascere senza capitali ma calcolando il valore degli impianti ceduti da ciascun Comune-azionista: ciò ha voluto dire 15 milioni di perdite solo nel primo mese di gestione. Si aggiungano 200 esuberi, anche se non cancelleremo un solo posto di lavoro. Il margine di miglioramento dei conti è legato alla riscossione di quelle fatture non pagate dal 30 per cento dei sardi. Stiamo intervenendo anche sulle condotte: ci sono perdite nel 50 per cento della rete.

Le grandi opere che realizzerete con gli oltre due miliardi previsti dal patto per la Sardegna le ha illustrate nella conferenza stampa del 4 agosto scorso. Roba di anni. Nell’immediato invece?

Aprirà il lotto 9 della Olbia-Sassari, a fine settembre ci concluderanno i lavori del primo lotto nella foce del rio San Girolamo (Capoterra). Entro l’anno saranno terminate le cosiddette opere d’arte nella nuova Sulcitana (statale 195): cioè ponti, sovrappassi e viadotti. È pronto il bando per eliminare gli svincoli sulla 131 nord. L’altro giorno abbiamo pubblicato la gara per la progettazione dei porti previsti col Piano Sulcis. Il primo lotto del porto di San Teodoro è alle battute finali. Le strade statali e provinciali saranno interessate da un piano straordinario delle manutenzioni. Con Abbanoa abbiamo aperto più di cinquanta cantieri.

Come vorrebbe finire il suo mandato?

Col presidente Pigliaru che va in Aula e invita il Consiglio regionale a proclamare che la Sardegna è una nazione che ha diritto a stare in Europa.

Alessandra Carta
(@alessacart on Twitter)

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