L’Africa coloniale nei ricordi dei sardi ‘d’oltremare’: l’inedita mostra a Sassari

“Come vorrei raggiungerti! Mi dici che se io fossi venuta, ti saresti trovato più legato. Sarebbe stato molto meglio che fossi venuta. Io sono convinta che la vita costì non ti sarebbe stata insopportabile ed anche io sarei stata molto meglio. Quando si ama, non si ha altro desiderio che vivere con la persona amata”. A scrivere queste righe è Caterina Frassetto di Nulvi; le ha indirizzate a suo marito, Agostino Piredda, da due anni trasferito a Bengasi in Libia, mentre nel mondo infuria la Grande Guerra. Sono parole affettuose di una moglie verso il suo uomo lontano. Una foto li ritrae insieme uno a fianco all’altro in un bianco e nero luminoso: Agostino è in divisa, Caterina, invece, è in un elegantissimo abito bianco dal gusto art decò, al passo con i tempi. Sprazzi di quotidianità all’interno di un periodo storico in cui l’Italia si buttò a capofitto nelle imprese coloniali in Africa, né più, né meno degli altri Paesi europei. Prima la Libia, poi l’Etiopia, la Somalia, l’Eritrea e l’Abissinia. Ma è la “micro” Storia quella che emerge dagli oggetti messi in luce nella mostra “L’Africa coloniale nel ricordo e nella memoria”, inaugurata mercoledì sera nella Biblioteca Universitaria di Sassari all’interno del progetto “Sardegna d’oltremare”.

LE FOTO

Piccole storie all’interno di un quadro più grande, fatto di lettere, manufatti riportati a casa come ricordo, fotografie, disegni, cartine e dispacci, addirittura opere d’arte di autori come Biasi, Melis e Palazzi e pure un romanzo. Ogni cosa fa da filo rosso ad una vicenda che si snoda dai primi del Novecento sino agli anni del cosiddetto “impero” dell’epoca fascista. Il tutto visto attraverso gli occhi dei sardi che danno così una visione del tutto nuova sia sulla storia del colonialismo in generale, sia d’Italia. Riaffiorano così le vicende, vere, di uomini normali, catapultati in un universo altro del quale capiscono ben poco e il cui esotismo permea in maniera più o meno inconsapevole le loro testimonianze; tutte riemerse per la prima volta da archivi e collezioni private della città grazie al minuzioso lavoro di ricerca svolto da Giuseppe Zichi, curatore dell’esposizione, in un progetto che coinvolge i due atenei dell’isola.

Così veniamo a conoscenza di una serie di esistenze fuori dal comune, come quella di Diego Cossu di Usini che appena ventenne viene catapultato da un piccolo paesino del Sassarese ai cieli infiniti del africacolonialelocandina-1Corno d’Africa. Un’esperienza che lo porterà a iniziare un romanzo, poi mai portato a termine, dal titolo “La bella tigrina”, nel quale si sofferma su un tema spinoso quale era il rapporto tra gli italiani e la popolazione locale, in particolare le donne, e sul divieto di contrarre matrimoni misti, riletto attraverso la vicenda di un giovane sardo con una ragazza eritrea. Oppure ecco Gavino Casula che a soli 19 anni, si ritrova tra i deserti assolati della Libia e viene colpito dagli usi e i costumi dei berberi del Sahara che illustra in un suo taccuino. Nel 1936 andrà in Africa orientale dove verrà poi catturato dagli inglesi, ma continuerà ugualmente a disegnare e fotografare questi luoghi. Di fatto tutte queste storie si possono riassumere come una serie di emigrazioni, fatte di allontanamenti o ricongiungimenti familiari, di viaggi di lunga percorrenza, di adattamenti a contesti naturali e sociali differenti, di rientri a casa con bagagli – reali e culturali – diversi da quelli con cui si era partiti. Questo, comunque, non vuole essere un ennesimo tentativo di semplificare la realtà, né vuole occultare l’essenza del colonialismo dietro il racconto edulcorato degli “italiani brava gente”, anzi se ne evidenziano ancora di più le luci e le ombre. L’esotismo, già citato qualche riga più su, ne è forse l’elemento più forte, ben visibile soprattutto in alcune immagini che ritraggono giovanissime ragazze africane svestite o semi nude, come a rimarcare un erotismo e un fascino primordiale, frutto in realtà di una visione mistificatoria da parte degli italiani nei confronti di mondi decisamente più complessi in cui l’esibizione del corpo non era strettamente legata alla sessualità, ma che veniva però percepita come tale. Da qui le distorsioni e i fraintendimenti. D’altronde, per citare un saggio noto e discusso quale è “Orientalismo” di Edward Said, è proprio da questa visione che traggono linfa i numerosi stereotipi sull’Africa e sull’Asia, molti dei quali sono ancora radicati nel presente e sono alla base dei travisamenti che permeano la contrapposizione tra Oriente e Occidente.
Il percorso espositivo si snoda attraverso oggetti e pannelli seguendo degli itinerari tematici, tra i quali uno dei più sorprendenti riguarda i menu della regia prefettura di Tripoli datati tra il 1912 e il 1918, i quali aprono uno scorcio interessante su come viveva e, soprattutto, mangiava l’alta società italiana di stanza in Libia che si era portata dietro usanze e consuetudini non solo burocratiche ma anche alimentari. La maggior parte dei piatti si rifanno alla tradizione culinaria regionale, per cui si possono trovare ravioli alla genovese, fritto misto alla milanese, maccheroni alla veneziana, arrosti, più vini di vario tipo: dal Chianti al Barolo più l’immancabile champagne Moet e Chandon. Anche se poi per Natale era d’obbligo il Gran spumante nazionale.

Francesco Bellu

“L’Africa coloniale nel ricordo e nella memoria”
Mostra a cura di Giuseppe Zichi

Testi di Valeria Deplano, Giovanni Fancello, Luciano Marrocu e Giuseppe Zichi. Allestimento e comunicazione: casa editrice Mediando.
Biblioteca Universitaria, piazza Fiume, 25 gennaio – 4 marzo 2017. Ingresso gratuito. Per informazioni contattare: 338 2891755

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