Una donna lotta contro la speculazione nella sua terra. Al cinema ‘Anna’ di Marco Amenta, storia di (doppia) resistenza

di Andrea Tramonte

Vicino a casa sua c’è un vecchio ulivo. “È il più vecchio di tutti”, le diceva il padre quando era ancora in vita: un albero con una forma strana che si è adattato al contesto per resistere. Una mattina quell’ulivo l’ha protetta dal calore bruciante del sole quando era ancora una bimba dentro una cesta: le ha letteralmente salvato la vita mentre la madre giaceva morta lì vicino. “Non posso lasciare che distruggano tutto, non posso”, dice al suo avvocato aprendo per la prima volta un varco sui suoi sentimenti, lasciando filtrare alcune delle ragioni che la muovono nella necessità di difendere quella terra – la terra del padre, la sua – dalla speculazione edilizia e turistica di una società italo-francese che cerca di cacciarla dalla sua casa per costruire un resort di lusso.

La Anna che dà il titolo al film di Marco Amenta – prodotto da Fandango con Eurofilm, Videa Next Station, Inthelfilm, Mact Productions e Rai Cinema e il supporto della Film Commission – è interpretata dall’attrice 28enne Rose Aste, originaria di San Sperate, ed è una donna che ha vissuto un grave trauma (glielo ricorda la cicatrice sul ventre che ogni tanto le fa male) ma non si sente una vittima e non vive come tale. È tornata da Milano dopo la fine del suo matrimonio con un uomo che la picchiava, e ha ripreso il lavoro del padre: fa l’allevatrice e vive insieme alle sue capre producendo ricotta e formaggio, che poi vende in paese.

Quella raccontata dal regista siciliano è una storia di resistenza che si sviluppa su almeno due livelli, che si intrecciano: quella nei confronti di un potere economico che si mostra con una faccia amichevole e usa espressioni come “valorizzare il territorio”, “coinvolgimento della comunità” e “rispetto” ma poi non esita a speculare e distruggere pensando che tanto tutto possa essere comprato; e una resistenza verso una società patriarcale, violenta e prevaricatrice che la marginalizza e cerca di distruggerla, che vive la sua libertà, la sua determinazione e anche la sua ruvidità come una minaccia (“crea problemi alla gente”, dice di lei uno del paese). Nella sua battaglia è affiancata da un avvocato, mite e gentile, interpretato dall’attore cagliaritano Marco Zucca, che se la deve vedere con la Mirage, la società italo-francese incarnata dall’avvocato interpretato da Daniele Monachella, volto paternalista e accomodante di una realtà imprenditoriale che sfregia il territorio. “Non c’è quasi colonna sonora – racconta il regista a Sardinia Post -, solo i suoni della campagna, i suoi silenzi rotti dal respiro delle macchine e il rumore assordante dei mezzi meccanici che scavano e distruggono”.

Lei viene dal fotogiornalismo e un po’ il vizio della cronaca sembra averlo conservato: il film parte da un fatto realmente accaduto in Sardegna, la lotta di un pastore contro il cemento nella sua terra.

Vengo dal giornalismo e ho fatto il reporter anche in contesti di guerra, ma poi sono passato alla finzione: cronaca e realtà mi interessano, certo, ma il cinema mi dà la possibilità di raccontare anche l’animo delle persone, l’aspetto psicologico, creare un universo altro attraverso immagine, musica e suoni in cui lo spettatore può vivere una esperienza emotiva ed estetica importante. In questo caso ho preso la storia di Ovidio Marras, che difese Capo Malfatano, però trasfigurandola anche per rompere gli stereotipi del vecchio pastore e raccontare invece una donna, anche con le sue contraddizioni.

C’è anche il tema della violenza di genere, reso esplicito dal vissuto di Anna e dalle reazioni di alcuni uomini del paese nei suoi confronti.

Anna lotta per la sua emancipazione, lotta anche per la sua libertà. Vive la ferita alla sua terra come una ferita inferta lei e questa volta dice no. E’ quasi circondata dai mezzi meccanici che invadono la sua terra, quasi fossero dei mostri, coi rumori, le luci del cantiere, una violenza che richiama altro genere di violenza.

In questo senso sembra saldarsi una critica a un capitalismo di tipo predatorio a una società patriarcale che si vede anche nella violenza che quasi tutta la comunità esercita su Anna.

Un parallelismo cercato. E c’è invece lei, la sua figura femminile che protegge la terra e le sue capre in modo quasi materno. Anche quando tutto sembra perduto non vuole mandare i suoi animali al macello, piange disperata l’uccisione di una di loro. L’aggressività del capitalismo sfrenato è assimilata alla violenza maschile.

Invece l’avvocato, quasi sottovalutato, si rivela un alleato prezioso.

Con lui ho voluto raccontare un modo diverso di essere uomo, oltre il modello del maschio alpha che sprigiona forza. Anche Anna all’inizio lo sottovaluta, come uomo e come avvocato, perché lei in passato ha avuto uomini di quel tipo, che l’hanno anche picchiata, mentre lui ha uno stile diverso, una dolcezza e una mitezza che rappresenta un altro stile. Poi la sua sensibilità si staglia e diventa importante all’interno della storia, anche sul piano umano. Rappresenta anche lui una critica al maschilismo.

Ci sono un po’ di affinità con un altro film sardo uscito in questi anni, L’agnello di Mario Piredda. Aste tra l’altro aveva una piccola parte anche in quell’opera. Forse anche il senso di accerchiamento di una giovane donna: lì le servitù militari, qui invece la grossa multinazionale che depreda il territorio.

Trovo che nella cinematografia sarda ci siano temi e caratteri molto forti, che ricorrono. Anche il paesaggio, la forza della natura, per fare un esempio. Questi lavori rinnovano la cinematografia italiana, ricca di coppie in crisi e salotti romani. C’è voglia di riscoprire la provincia e la Sardegna è ricca di storie da raccontare e che il pubblico apprezza. Anna sta avendo successo in giro per il mondo, con premi in America e in Francia. E il pubblico ha dimostrato molto interesse anche verso i suoni della lingua sarda.

Il film dove è stato girato?

In diversi posti. La fattoria, una fattoria vera, si trova a Capo Ferrato e la spiaggia è Feraxi. Muravera è stata la location principale, ma per il paese abbiamo usato Marceddì, che adoro, e girato anche a Cagliari e Arborea.

Per il cast ha lavorato con gli attori cercando di farli andare in profondità nella loro parte.

Ho incontrato tantissimi attori bravi, molto viscerali, che credono in quello che hanno recitato: sono profondi e hanno dato il cuore al film, calandosi veramente nella parte. Con Rose per esempio abbiamo fatto un lavoro di preparazione di settimane, nella fattoria insieme a pastori e animali in modo che si sentisse a suo agio in quel mondo rurale, che riuscisse a convivere con le capre e che le capre imparassero a riconoscere il suo odore. Con questo lavoro lei è “diventata” il suo personaggio. Un lavoro lungo ma che paga.

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