Mamoiada, la patria del Cannonau: “Il nostro vino identifica il territorio”

di Andrea Tramonte

Il paese si trova in una vallata in mezzo alle montagne ed è letteralmente circondato dalle vigne, situate ad altezze diverse. Sono circa 350 gli ettari di terreni dedicati all’uva e di conseguenza i numeri sono molto significativi: a Mamoiada ci sono almeno 200 cantine familiari e una trentina – ma forse siamo arrivati a 35 – imbottigliano in modo professionale. Nonostante le zone dell’interno siano colpite in vario modo dal fenomeno dello spopolamento, il centro barbaricino riesce a mantenere costante la sua popolazione proprio grazie all’economia fiorente nata insieme al vino: oggi ci sono 2.500 abitanti e sono 150 le famiglie che vivono di attività vitivinicola a tempo pieno. “La cosa bella è che ci sono numerosi giovani che dopo aver studiato – da enologi, agronomi, in economia – tornano qui e vogliono stare qui per fare questo lavoro”, spiega Francesco Sedilesu, ex presidente dell’associazione Mamojà che raggruppa tutte le cantine del territorio e ovviamente impegnato a vario titolo nel lavoro vitivinicolo. Il paese è ancora più noto per le maschere dei Mamuthones e degli Issohadores – c’è anche un bel museo dedicato all’interno del centro – ma qui tutti hanno un vigneto. “È la nostra cultura, la nostra tradizione – aggiunge Sedilesu -. In occasione delle feste paesane raccogliamo il vino, pochi litri per ciascuno e lo condividiamo. La qualità è tale che quel vino si potrebbe anche imbottigliare”. 

Ci sono alcune date da segnarsi per capire il motivo per cui ogni anno a Mamoiada nascono nuove cantine e si sia arrivati a una produzione media di 500mila bottiglie all’anno, pur con la presenza di aziende piccole e anche piccolissime. Nel 2015 è nata l’associazione Mamojà e ne facevano parte appena cinque cantine. “All’inizio c’era timore, alcuni vignaioli vedevano quelli che ce l’avevano fatta e avevano paura di non riuscirci”, racconta Sedilesu. “Volevamo che i giovani vedessero da vicino il nostro lavoro: abbiamo rotto il ghiaccio e da lì è stata una valanga. Ora si aggiungono almeno quattro o cinque cantine ogni anno”. Lo stesso Francesco è all’opera su più fronti. La cantina madre, Sedilesu appunto, fondata dal padre oggi novantenne e oggi la più grande di Mamoiada con le sue 100mila bottiglie all’anno. Poi insieme al fratello hanno deciso di dividere un po’ di vigne in modo da garantire anche ai figli la possibilità di produrre il loro vino, e così sono nate altre due cantine: VikeVike e Teulargiu. Una dinamicità enorme che quasi fa perdere il conto delle nuove etichette che nascono ogni anno. 

L’idea forte dell’associazione è quella di valorizzare il terroir e identificare il Cannonau prodotto con la zona di Mamoiada. Che ha caratteristiche uniche e sono perfette per la coltivazione di quell’uva. Il terreno granitico con un po’ di acidità, l’altura e l’esposizione del vento rappresentano l’habitat naturale per il vitigno. Tutti i vigneti sono rigorosamente biologici e il lavoro nei campi si basa sul rispetto profondo dell’ambiente. Per ottenere un prodotto sano e genuino, certo, ma non solo. “Vogliamo bene al nostro territorio – spiega Sedilesu -. Alcuni produttori usano il tema del bio per avere più successo sul mercato, per noi è semplicemente una cosa naturale. Non vai a sporcare l’uscio di casa. E poi dal punto di vista sociale ci sono molti giovani e i territori non sono stati abbandonati”. Questa enfasi sui giovani è decisiva. Giovane è anche il nuovo presidente dell’associazione, Giovanni Ladu, vignaiolo 32enne, che ha aperto la sua cantina nel 2017 e ha prodotto la prima bottiglia nel 2019. Ladu è cresciuto nelle vigne come tante persone a Mamoiada. “La prima vinificazione l’abbiamo fatta quando mio padre ha acquistato i terreni e avevo 12 anni – racconta -. Noi lì in mezzo ci passiamo la vita. C’era chi ci lavorava, chi giocava in mezzo ai vitigni. È qualcosa che vivi davvero. Nei vigneti ci spacchiamo la schiena e mettiamo le mani in piante che sono passate per generazioni. Se io quella vigna l’ho curata per 80 anni l’ho salvaguardata come zona verde, sono il suo guardiano. Se lì non c’è altro è perché per generazioni abbiamo portato avanti una determinata filosofia, una visione: producevamo vino per noi stessi e quindi doveva essere sano. Ora abbiamo il compito di salvaguardare il territorio per chi verrà dopo”.

Le cantine sono tenute tutte a seguire determinate regole. Nessun lievito, ad esempio, il lavoro in vigna più tradizionale possibile nel rapporto profondo tra uomo e natura. Il totale delle ore passate nei campi naturalmente è diverso rispetto alle grandi cantine in cui il lavoro è profondamente meccanizzato. Esistono ancora vigneti storici anche di 100 anni, che naturalmente hanno rese più basse e impongono una cura ancora maggiore. Il Cannonau domina ma è presente anche la Granatza, in piccole quantità che comunque cercano di essere valorizzate dai vignaioli della zona. L’appezzamento di vigna a Mamoiada si chiama “ghirada”, che identifica quel determinato terreno e – in prospettiva sempre più – anche un determinato vino. Ad esempio Ladu ha la vigna a S’Ena Manna, una zona in cui decenni fa si diceva non si producessero buoni vini. “Ma gestendo la vigna in modo rigoroso riusciamo a ottenere un ottimo prodotto – spiega -. La zona è vigorosa e devi gestire il verde, quindi servono passaggi in più, ad esempio defogliando. Ma siamo riusciti a valorizzare anche quei campi”. E la ghirada diventa anche il nome della bottiglia, S’Ena Manna appunto: che è un modo per identificare il vino col territorio. 

L’articolo completo su Sardinia Post Magazine

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