I baby profughi nella Sardegna senza garante per i minori

Arrivano a Cagliari e non sanno nemmeno di essere in un’isola. Per loro è semplicemente Europa. L’approdo avviene sempre di seconda sponda: dopo il salvataggio nelle acque del canale di Sicilia. Poi un nuovo viaggio di emergenza a bordo di mercantili che trasportano spesso anche mille persone (leggi qui): l’ultimo la scorsa settimana a Cagliari dopo uno stop durato mesi, i bambini e ragazzini a bordo erano 58.  Tra loro c’è chi ha perso in viaggio i genitori,  o l’adulto di riferimento (a volte un parente o un conoscente), o ancora è stato mandato dalla famiglia in compagnia di altri ragazzini.  I minori soli non accompagnati  sono in continuo aumento anche in Sardegna – fino ad agosto del 2016 ne sono arrivati in 1200 – sebbene con proporzioni ridotte rispetto al resto d’Italia in cui gli arrivi sono stati oltre 16.800 nello stesso periodo (secondo dati della Fondazione Ismu, Istituto per lo Studio della Multietnicità). Ma non restano qui, alcuni, semplicemente, spariscono. E sono tanti. Difficile avere numeri ufficiali aggiornati, ad agosto 2016 erano 500 nell’Isola, a febbraio del 2017 sono 200 nella sola provincia di Cagliari.

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Il quadro arriva dalla prefettura tramite Marina Bardanzellu: lei è un avvocato specializzato in diritto minorile, conosce bene la materia. Anche se il capitolo migranti è ancora una frontiera nuova, la prima legge nazionale è stata approvata pochi giorni fa (leggi qui). Bardanzellu è uno dei due legali – tutori di un caso rimbalzato per settimane nella cronaca nazionali e internazionali – insieme alla collega Maria Antonella Taccori. A Cagliari nella scuola paritaria cattolica delle suore Mercedarie (privata convenzionata con il pubblico), i ragazzi – uno di 9 anni e uno di 12 – che regolarmente frequentavano le classi sono stati invitati a utilizzare un bagno diverso dagli altri. Come riconoscerlo? Semplice, sullo stipite c’era già un adesivo. Una soluzione trovata lì per lì, spiega Bardanzellu, dalle educatrici. Che racconta anche come si è arrivati a ciò: “Non era certamente una via d’uscita ufficiale, della scuola, dove i bimbi migranti sono sempre stati accolti e integrati. Solo un rimedio tampone, perché le maestre a metà mattina – come facevano sempre – invitavano tutti a fare una tappa in bagno. E invece, molti bimbi, senza spiegare il perché si sono rifiutati dicendo che sarebbero andati a casa, una volta finita la scuola”. Una cosa strana, certo, ma non potevano permettere l’astinenza: “Era chiaro che quel comportamento era stato suggerito dai genitori proprio per evitare il contatto con i ragazzini stranieri”. Ecco, nelle settimane precedenti c’erano state diverse riunioni e assemblee con insegnanti, i tutor e i genitori. Il timore più diffuso è che i migranti fossero più grandi dei compagni di classe ‘indigeni’. Ma non era così: “Ormai il controllo Asl per l’età viene fatto a tappeto, proprio perché sono previsti piani di accoglienza diversi per maggiorenni e per minori. Nonché ci sono stati dei casi dubbi, di maggiorenni camuffati. Ma la differenza minima ci può essere tra i 15-18 anni, questi è evidente che sono bambini”. Di fatto poi è scattato il caso mediatico e il clamore ha coperto tutto, nonché sollevato un polverone. “In silenzio poco tempo prima – svela il legale – alcuni genitori avevano già spostato i loro figli in altre scuole. Una decisione riconducibile alla presenza dei migranti, certo, ma non citata apertamente. Il timore è che i propri figli abbiano dei disagi a livello scolastico, eppure negli incontri è stato spiegato che ogni profugo è seguito da un insegnante di sostegno. E solo chi è considerato in linea può accedere a una classe ordinaria”. E fa ancora l’esempio del suo assistito più piccolo: “Ha undici anni, è alfabetizzato e ha imparato subito l’italiano, di cui conosceva già dei rudimenti. Si è integrato e segue con successo. Il bambino etiope è arrivato qui con suo cugino di 15 anni. Lui, per esempio, non sa scrivere. Non conosce i numeri, non può frequentare. E quindi si è trovata un’altra soluzione: segue uno dei corsi base tenuti da volontari. Ma ovviamente i percorsi  scolastici dei due sono distinti”. Insieme i due cugini – racconta ancora –  hanno attraversato a piedi chilometri e chilometri fino al campo profughi in Libia, al viaggio in mare, al salvataggio e quindi all’approdo a Cagliari.

L’assenza del garante dei minori

I percorsi d’accoglienza per i migranti minori e gli adulti sono differenti: i piccoli, secondo le direttive europee, le leggi italiane e una delibera regionale, devono essere accolti in strutture diverse. Con una maggior tutela, ma difficile da ottenere soprattutto per via delle situazioni d’emergenza. A ciò si aggiunge che la  Sardegna è una delle quattro regioni che non ha il Garante per i minori, una figura di riferimento, una casella che ancora non è stata occupata. E così di fatto nell’Isola le situazioni di promiscuità sono molto frequenti: ragazzini soli e adulti sconosciuti vivono insieme. I centri sono scelti sempre di corsa, e spesso i bandi delle prefetture cadono nel vuoto: e così si adattano capannoni isolati, agriturismi e palazzine allestite in fretta e furia. Come denunciato di recente a Sassari dagli attivisti della campagna LasciateCIEntrare (leggi qui): tre ragazzine nigeriane vivevano in uno stabile con cento adulti, di cui solo una donna. In quel caso rilevavano anche l’assenza di tutor: “Mi pare strano dopo sei mesi, potrebbe esserci stato un problema di comunicazione e burocrazia”, commenta Bardanzellu.

Le armi spuntate dei tutor

Come funziona? “All’arrivo – spiega – c’è un primo colloquio nel posto di arrivo, alcuni parlano solo dialetti locali ma spesso sanno a cosa hanno diritto. Difficile, a volte, ottenere subito l’identità certa. Ci appigliamo a tutto: un tesserino di un campo profughi è un documento prezioso. Poi gli esami medici e il trasferimento nelle strutture”. E traccia l’identikit dei tutori: “Sono volontari, non riceviamo nessun compenso, né rimborso spese. Nemmeno quando i nostri minori sono lontani chilometri e chilometri. Ci iscriviamo alla cancelleria del tribunale, dando la disponibilità. Quando c’è lo sbarco ecco che veniamo chiamati a rotazione, poi la ratifica dal giudice tutelare. “Di solito ne assegnano circa dieci a testa – spiega ancora Bardanzellu -. Il loro obiettivo è aiutare la famiglia che li ha spediti qui con mille sacrifici. Hanno visto la morte in faccia, vissuto privazioni e violenze. Spesso non vogliono essere fotosegnalati, soprattutto quelli che capiscono di non essere nella penisola. I più informati vogliono raggiungere eventuali parenti o anche lontani conoscenti nel nord Europa e sanno che potrebbero avere difficoltà”. E infatti molti, semplicemente, si volatilizzano. Il suo campione personale dei minori scomparsi è lampante, e il trend è questo: “Dei miei dieci minori, ne sono rimasti solo quattro”, ammette Bardanzellu. Gli altri? “Non si sa nulla, se li ripescano a Roma, per esempio, devono riportarli qui. Il pericolo più comune è che caschino nella rete della piccola malavita organizzata. Alcuni fanno diventano manovali dello spaccio di droga o peggio ancora portati via: allettati da piccoli guadagni, sempre con il pensiero della famiglia”. Lo scenario dei percorsi previsti va dal permesso di soggiorno per l’affidamento chiesto sempre dal tutore, la protezione internazionale o quella sussidiaria.

Il progetto spezzato

Chi resta e raggiunge la soglia dei 18 anni, automaticamente, il giorno dopo è spostato in un centro per adulti. “E non importa se la distanza della nuova struttura gli impedisce di raggiungere, per esempio, la scuola”. La burocrazia spezzetta di continuo questi progetti di vita e di integrazione. E il dopo: lavoro o studio resta un’incognita. Gli esempi concreti della tutor nascono dalla sua esperienza diretta: “Ma gli intoppi spuntano ben prima della maggiore età. Per esempio – racconta – per iscrivere un ragazzino migrante di 14 anni a una qualsiasi scuola calcio dell’hinterland cagliaritano senza documenti, niente tessera e niente visita medica per attività non agonistica”. Il calcio è davvero lo sport dell’integrazione, ma che fatica, racconta ancora: “Un altro profugo bravo doveva essere iscritto al campionato, ma era necessario far arrivare tutta la documentazione alla Fifa, in Svizzera, tradotta in lingua inglese. L’unico modo: per fortuna ho trovato una tradutrice ufficiale che ha lavorato in modo volontario e ci sono riuscita. Ogni operazione ha dei tempi che non si conciliano con quelli della vita qui, con un vero progetto. C’è davvero tanto da fare”.

Monia Melis

Foto Roberto Pili

 

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