Maledetti smartphones!

Se la nostra vita si modifica turbinosamente inseguendo ritmi, rivoluzioni sociali, crisi economiche sempre più incalzanti, anche la fotografia, che è testimone del mondo, non è rimasta immobile.

La rivoluzione digitale non ha solo messo in soffitta la pellicola, ma ha creato una sorta di “democratizzazione” della fotografia che ha universalizzato questa pratica. Grazie al digitale siamo diventati tutti fotografi.

Una ulteriore evoluzione di questa tendenza è stata introdotta dagli Smartphones più sofisticati che hanno permesso di avere una sorta di block notes sempre a portata di mano. I più creativi hanno cominciato a sperimentare con le migliaia di app fotografiche che, manipolando luce, colore e nitidezza rendono effetti pittorici che danno l’illusione di essere non solo tutti fotografi, ma anche tutti artisti.

Ma finora, al di là della compulsiva produzione di immagini e della immediata condivisione sui Social Network che sta modificando il modo di comunicare non solo visivo ma anche verbale esistevano due universi abbastanza distinti: i professionisti e gli altri.

Ma le certezze dei primi cominciano ad essere minate da una tendenza che sta prendendo piede fra i giornali d’informazione. Incalzati dalla necessità di contenere i costi cominciano a sostituire le foto dei professionisti con quelle dei lettori. Questo per immagini di cronaca, ma negli Staes anche eventi come l’uragano Katrina sono stati coperti ampiamente con foto fatte da dilettanti con i telefonini.

La stessa Associated Press, una delle più potenti agenzia fotografiche, dichiara che la tendenza editoriale del futuro sarà la pubblicazione di immagini spontanee. Cioè realizzate da non professionisti e, con buona probabiltà, con uno smartphone.

Maledetti smartphones, twitta qualche professionista e molti si domandano già: è la fine del fotogiornalismo d’autore? Forse no, ma sicuramente il mestiere del fotografo professionista sta vivendo momenti di cambiamento che non tutti riescono a comprendere e seguire.

Michele Smargiassi, uno egli osservatori più lucidi ed attenti, nel suo celebre blog Fotocrazia, analizza il fenomeno ponendo anche l’accento sugli errori dei professionisti. Scrive Smargiassi, : «Bisogna chiedersi se non c’è stata anche un’inerzia professionale, una bonaccia di idee. Quanta ripetitività, quanti schemi un po’ troppo facili per fare un servizio dal fronte (i ritratti dei soldati, i ritratti delle mamme dei soldati con in mano la foto dei figli morti…) abbiamo visto e rivisto in questi anni?».

L’accento è anche sulla spasmodica ricerca della “foto da premio”, quella che dà fama e soldi, ma che concentra i professionisti in pochi selezionati luoghi, in genere teatri di guerre e atrocità.

«Ma quanti reportage da Gaza — prosegue Smargiassi — possono essere venduti contemporaneamente sul mercato mondiale dei media? Cinque? Dieci? venti? E quanti fotoreporter invece sono andati contemporaneamente a Gaza a scattare, anche bene, anche professionalmente, anche coraggiosamente, più o meno le stesse foto?».

Sta capitando nel fotogiornalismo, quello che succede nel campo naturalistico. Abbiamo un’inflazione di foto di ghepardi e leoni che sbranano antilopi. Per restare in Sardegna siamo invasi da immagini di fenicotteri. Pochissimi cercano soggetti alternativi, forse meno vendibili ma in un campo più libero dalla concorrenza.

Siamo poi sicuri che un lavoro fatto da un professionista sia poi sempre superiore a quello di un buon fotoamatore, magari con uno smartphone? Io non ne sono sicuro. Guardate la Photogallery con i vincitori del concorso Mobile Photography Awards organizzato da Mobilephotographyblog e qualche dubbio verrà anche voi.

Perché una foto non è fatta solo di nitidezza, ma coglie attimi, emozioni, riflessioni, visioni che non necessariamente vengono sminuiti da un apparecchio poco sofisticato come un cellulare. Salvatore Ligios, fotografo e docente di fotografia mi disse, durante un’intervista: «Quello che fa la differenza è la qualità del progetto e la padronanza del linguaggio. Il mezzo usato non è fondamentale».

Diceva Eugen Smith: «A cosa serve una grande profondità di campo se non c’è un’adeguata profondità di sentimento?». Ecco, da questo bisogna partire, dai contenuti per comprendere una rivoluzione che non è solo fotografica ma sociale.

Enrico Pinna

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