Il collettivo Amsicora raccoglie un gruppo di qualificati osservatori delle vicende economiche sarde che ha deciso di rompere il silenzio sulle vicende della Fondazione e del Banco di Sardegna. Osservatori noti alla direzione di questa testata che, per ragioni di opportunità e di garanzia delle loro fonti, ha deciso di firmare gli interventi col nome collettivo (ed evocativo) di Amsicora. Questo nuovo scritto prende spunto dalla recente conferenza stampa della Fondazione.
Nei giorni scorsi la Fondazione bancaria sarda ha rotto finalmente il suo lungo silenzio e lo ha fatto attraverso una conferenza stampa del suo presidente, Antonello Cabras. Ora, al di là di notizie ed informazioni riguardanti la sua normale routine operativa, dalla discussione e dalle domande dei partecipanti sono emerse due considerazioni su cui è giusto soffermarsi.
La prima ha riguardato la conferma di Cabras su di un possibile “alleggerimento” della partecipazione azionaria detenuta nel Banco di Sardegna (49%), anche per dare seguito al suggerimento pervenuto dell’organo ministeriale di vigilanza; la seconda, anch’essa abbastanza significativa e, per certi versi, conseguente, l’aver ricavato l’impressione che si ritenga sempre meno strategica la difesa dell’identità locale dell’azienda bancaria, dato che – a giudizio di Cabras – avrebbero sempre meno importanza, in questa fase d’una economia globalizzata, le banche “a chilometro zero”, come s’è oggi ridotto il Banco.
Si tratta di due osservazioni che entrano di forza all’interno dei rapporti esistenti con il socio di maggioranza nel Banco, la modenese Bper. Rapporti, per quel che si sa, regolati dall’Accordo Parasociale sottoscritto il 26 ottobre del 2012 che, a differenza del precedente del 2001, ha aggravato ancor di più lo squilibrio di poteri fra soci, a tutto vantaggio della Bper.
In buona sostanza, con quell’infelice accordo la banca modenese ha ottenuto dalla Fondazione l’impegno a non ridurre la propria quota di partecipazione sotto il 20%, mentre un’eventuale cessione delle restanti azioni potrebbe avvenire soltanto offrendole prioritariamente all’altro socio; e, infine, ha consentito che la nomina degli amministratori (nove di parte Bper e sei della Fondazione) debba avvenire attraverso un preventivo accordo, così come concordato dovrà essere il nome del presidente. Per farla breve, si è stabilito che la Fondazione non possa più disporre liberamente della propria partecipazione al capitale del Banco e che la sua rappresentanza nel CdA del Banco debba avere il consenso del socio di maggioranza.
Ciò ha equivalso a legarsi mani e piedi, più ancora che nel passato, al carro dei banchieri modenesi, interessati a costruire quella che loro ora chiamano “la Grande Bper”, cioè una banca “nazionale”, operante prevalentemente nel Centronord. Il progetto è stato portato a compimento con l’incorporazione di tutte le banche controllate operanti nella penisola e con l’assorbimento degli sportelli “sardi” fuori dall’isola. Della vecchia idea della banca federale verrebbero conservate solo le due banche sarde, come semplici appendici da utilizzare, secondo le vecchie logiche colonialiste, come fornitrici di ricchezza (non a caso dall’isola proviene il 28 per cento della raccolta totale del gruppo, mentre gli impieghi risulterebbero sotto il 19 per cento).
Non vi è dubbio alcuno, quindi, che l’idea centrale del dottor Alessandro Vandelli (oggi l’uomo forte della Bper) sia quella di creare un competitor agguerrito per affermarsi in quelle economie del Centronord del Paese, indubbiamente tra le più fertili e sicure per gli impieghi creditizi. Noi di Amsicora abbiamo cercato di interpretare, anche attraverso l’analisi di diverse dichiarazioni pubbliche, le linee-guida che sono state adottate per costruire la “Grande Bper”. Vi è infatti la chiara intenzione di procedere a nuove aggregazioni-incorporazioni (soprattutto nell’area del Nordovest, oggi scoperta), in modo da permettere una crescita della banca in tutto il territorio peninsulare. Mentre niente viene detto per il potenziamento della presenza nell’isola, quasi la si ritenga un corpo estraneo.
La strategia che è stata adottata ha riguardato una decisa semplificazione operativa: non più una quindicina e passa di banche federate, ma, per citare Vandelli, un “nuovo modello di banca frutto del processo di semplificazione che ci ha visto incorporare man mano le nostre controllate bancarie, completando, con le ultime tre nel 2014, l’estensione del marchio a tutta la penisola. E lasciando fuori soltanto il polo sardo”. A suo giudizio si è scelto di operare con forte decisione e rapidità “con il preciso obiettivo di migliorare la redditività del gruppo, rendendolo più efficiente ed efficace”.
Ora, se questo è il progetto della “Grande Bper”, viene da domandarsi se le due appendici sarde (Banco di Sardegna e Banca di Sassari) continuino ad avere, e per quanto tempo ancora, un loro ruolo nel gruppo modenese, che non sia solo quello d’essere soltanto delle portatrici d’acqua (cioè risorse della raccolta).
In questa luce, le dichiarazioni di Cabras sembrerebbero non del tutto in sintonia con i progetti modenesi, proprio perché, dopo la conclusione di due operazioni molto importanti per gli assetti territoriali e patrimoniali della “Grande Bper” (lo scippo dei 35 sportelli “sardi” nella penisola, per un valore, più o meno, di circa 170 milioni di euro, e del controllo della Sardaleasing, anch’esso dal valore plurimilionario: ma da Sassari a Modena sarebbero trasmigrati in 13 anni assets per una cifra a nove zeri…), la “spoliazione” del Banco di Sardegna appare ormai quasi completata. E, conseguentemente, parrebbe aver perduto molto interesse detenerne il controllo.
In questa situazione, si è aperta tra di noi di Amsicora una riflessione su quanto ci ha scritto un amico, circa la possibilità di riportare in Sardegna il controllo del Banco. Idea non certo peregrina, visto quei segnali che sembrerebbero prefigurare un disimpegno modenese in un futuro non molto lontano. Ma, per meglio seguire quell’ipotesi, occorre ridare al Banco tutte le attrezzature e gli strumenti per ritornare ad essere una banca autonoma, e non più un “possedimento coloniale” della banca modenese.
Si tratta cioè di rendere la partecipazione nel suo capitale attiva, e non più succuba ai voleri dell’altro socio. Perché in passato si è sempre consentito che al Banco venissero sottratti gli assets più interessanti, determinandone delle evidenti minusvalenze patrimoniali e delle pesanti perdite d’autonomia. Non è in discussione, per essere chiari, la partecipazione al capitale, se del 49 per cento o minore, quanto la sua gestione. Perché anche con il 20-25 per cento del capitale – sono parole di un esperto di “fatti” societari – si è in grado di far “ballare” la società al ritmo che pare più conveniente: se la maggioranza volesse imporre il “saltarello romagnolo”, aggiunge, si può essere in grado di cambiarlo in “su ballu tundu” nostrano, solo che lo si voglia e lo si sappia imporre.
Quindi, anche alleggerendo la sua partecipazione al capitale, la Fondazione avrebbe la possibilità di condizionare i voleri, presenti e futuri, della Bper. Ma lo vuole veramente? Ed è questa una risposta che dalla Fondazione non è ancora giunta. Per cui non possono che preoccupare i dubbi espressi da Cabras sulla validità della banca a chilometro zero. Cioè sulla necessità, per la nostra economia, d’una banca locale attrezzata, per cultura ed interesse, ad ascoltare ed a seguire le esigenze di credito del nostro “particolare” sistema produttivo.
A nostro giudizio, e per quel che ci riconsegna l’esperienza, per la Sardegna appare fondamentale la difesa (o la riconquista) di una “vera banca locale” che abbia le stesse affinità culturali con il mondo delle nostre piccole e piccolissime imprese. Infatti, grazie alla presenza di una banca locale forte e competitiva, il mercato locale del credito non sarebbe condizionato – come ora accade – dalle strategie extra-territoriali delle grandi banche nazionali, interessate a ben altri scenari dai più proficui vantaggi (uno studio recente indicherebbe in un rapporto da tre a cinque le domande di credito non accolte nell’isola).
Ci sarebbero inoltre da valutare gli innumeri vantaggi determinati dalla presenza d’una banca radicata nella società isolana: perché essa non va vista solo come semplice erogatrice di prestiti e raccoglitrice del risparmio: il suo ruolo si estende all’importante impatto sociale che la formazione di una classe dirigente bancaria può avere. Ed è questo un aspetto a cui non viene data l’importanza che merita, dato che le interazioni possibili tra investimenti in formazione, qualità del capitale umano, funzioni professionali qualificate sono alla base d’uno sviluppo endogeno a cui la banca locale ne diviene strumento assai rilevante.
Si è quindi dell’opinione che il futuro del Banco sia oggi tutto nelle mani della Fondazione. E questo anche nel caso, non del tutto utopico, che si dovesse verificare (o provocare) un disimpegno dell’attuale partner nell’azionariato. Certo, gli scenari che si prefigurano sono assai complessi e difficili, per cui sarà necessaria che l’ingegner Cabras – che ne ha senza dubbio le capacità e l’esperienza – assuma con coraggio un ruolo da protagonista. Ci si augura, quindi, che la Fondazione non si voglia sottrarre alla sfida, assumendosi quindi tutte quelle responsabilità da vigile azionista (per la miglior tutela degli interessi dei sardi) da cui finora si è tenuta distante.
D’altra parte, cambiare registro si può, anche perché l’attuale accordo parasociale scadrà nell’ottobre dell’anno prossimo, e disdettarlo fin da ora sarebbe atto politicamente molto significativo. Permetterebbe cioè di riuscire ad effettuare un’attenta verifica su quali progetti il dottor Vandelli lavora per il futuro del Banco di Sardegna.
Ed è per questo che il nodo della Fondazione (cosa pensa e cosa intende fare) appare determinante per chi, come noi di Amsicora, vorrebbe che salvaguardasse quel valore straordinario che risiede nel radicamento territoriale del Banco di Sardegna, riportandola ad essere la prima banca dei sardi.
Amsicora