Ballottaggi, la doppia lezione dalle urne: Sardegna a destra e partiti ‘sconfessati’

Primo: i sardi si sono spostati a destra. Secondo: i partiti contano sempre meno. È questa la doppia lezione arrivata dalla urne delle Amministrative 2019. Un bollettino politico spalmato in due tempi, dal voto del 16 giugno ai ballottaggi di ieri, a Sassari e a Monserrato.

Cominciando dal nuovo orizzonte a cui l’elettorato isolano guarda, per Pd e alleati è stato un quasi cappotto: sui cinque Comuni con più di 15mila abitanti, quindi tali fare statistica, quattro sono finiti nella mani del centrodestra. Così a Cagliari, Alghero, Sassari e Monserrato. Solo su Sinnai il Partito democratico ha potuto mettere la bandierina, con Tarcisio Anedda, ma insieme all’Udc, ovvero una forza moderata.

Il paradosso – e qui siamo alla seconda lezione dai seggi – è che la coalizione al governo della Regione non ha motivo per esibire una gioia piena. Vero che Cagliari è stata strappata al centrosinistra dopo otto anni grazie all’Fdi Paolo Truzzu e ad Alghero, ugualmente, Mario Conoci ha interrotto la sequenza negativa che durava da un decennio. Tuttavia a Sassari e a Monserrato hanno vinto i ribelli del centrodestra, due candidati sindaco che idealmente stanno da quella parte, ma lo schieramento al governo della Sardegna li scaricò scientemente, quando tra aprile e maggio si decisero le alleanze. Il medico-chirurgo Nanni Campus a Sassari e l’imprenditore Tomaso Locci a Monserrato sono stati isolati per essere puniti. Questa era la strategia. Invece, con l’abito dei civici e una manciata di liste, i due hanno conquistato i rispettivi Municipi.

I partiti si mettano l’anima in pace: un buon candidato sindaco, anche quando viene lasciato solo, può vincere. Gli elettori sono sempre meno agganciati alle rendite di posizione su cui poggia il consenso delle forze politiche tradizionali. E non basta avere qualche lista civica nel proprio schieramento: nemmeno la ricetta della contaminazione, quasi in un pot-pourri politico, scalfisce l’appeal del buon candidato di cui sopra.

Certo, ridurre i verdetti delle urne a due lezioni-sintesi è concettualmente sbagliato. Perché nelle pieghe dei dati elettorali si trovano molti altri elementi di analisi, non univoci. Per esempio: il Pd, malgrado le sconfitte, è primo partito nelle due più importanti città dell’Isola: a Cagliari col 16,3 per cento e a Sassari col 19,6 per cento. Lì dove le seconde forze sono rispettivamente i Fratelli d’Italia e il Movimento Cinque Stelle, all’11,7 e al 13,8. Stiamo parlando di un distacco importante, di cinque e sei punti. Ma politicamente inutile. E soprattutto inutilizzabile. È come se i dem fossero ripiombati alle Politiche del 2013, quando l’allora candidato premier Pierluigi Bersani, mai arrivato a Palazzo Chigi, fece notare con amarezza: “Siamo arrivati primi ma non abbiamo vinto”.

Ovvio che le percentuali di pochi anni fa non sono più ripetibili, perché il quadro politico è sempre più frammentato. Quasi in una parcellizzazione del consenso che, per un verso, risulta positiva in quanto obbliga i partiti alla concertazione creando pesi e contrappesi interni. Ma la politica (movimenti civici inclusi) farà il vero salto di qualità solo quando riporterà gli elettori alle urne.

Sia il 16 maggio scorso che nei ballottaggi di ieri l’astensionismo ha continuato a disegnare praterie con una media del 44,67 al primo turno, mentre ieri a Sassari e Monserrato ha quasi raggiunto il 60 per cento. Viene da chiedersi quale perversa sensazione provi la classe dirigente sarda a rappresentare una fetta sempre più ridotta di elettorato. È un controsenso cercare da un lato la legittimazione popolare e poi lasciare, per un altro verso, che il senso delle istituzioni prescinda dal valore della partecipazione.

Alessandra Carta

 

 

 

 

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