Soddu: “Nell’Isola il Pd è privo di prospettiva politica e culturale”

Invita alla “costruzione di un nuovo senso comune” Pietrino Soddu, già presidente della Regione, già deputato, padre nobile della politica e del centrosinistra isolani. A prendere forma in questa intervista è una sorta di decalogo sardo del buon politico, per dirla con le parole usate da don Sturzo nel ’48, quando lanciò il suo manifesto dei dieci punti. Perché oggi come allora “serve un orizzonte per comporre la saldatura tra cittadini e partiti”, dice Soddu. Ma se nel ’48, nell’Italia appena diventata una repubblica, il senso comune era ancora tutto da codificare, adesso serve un percorso riformatore, “indispensabile per colmare la perdita di valori e idealità che il 4 marzo ha determinato la più grave crisi dei partiti tradizionali”.

Presidente, a undici mesi dalle elezioni regionali del 2019, la Sardegna si ritrova col Pd al suo minimo storico, poco sopra il 15 per cento, e il Movimento Cinque Stelle con oltre 96mila elettori in più, al 42,3.

Una sconfitta di queste proporzioni era certamente inattesa per tutti quelli che tifavano per il Pd. Ma a uscirne indeboliti dalle urne sono anche i cosiddetti corpi intermedi, ovvero sindacati e associazioni di categoria che per settant’anni hanno garantito la mediazione e la partecipazione delle classi più deboli alla vita politica. Le elezioni del 4 marzo hanno segnato una pesante marginalizzazione delle strutture collettive di un tempo.

Adesso c’è la Rete, c’è la tecnologia applicata alla politica.

Una Rete che plasma comportamenti, opinioni e orientamenti elettorali. Un processo sottovalutato, anche in Italia. Ricordo un convegno di qualche anno fa organizzato sul tema da Soru e al quale partecipò Rodotà: io fui l’unico a sollevare il problema dell’ambiguità del fenomeno. Lo sosteneva McLuhan: la qualità del mezzo fa la qualità del messaggio, rendendo quest’ultimo populista e demagogico, vista la potenza della tecnologia.

Cominciano dai consigli: ai dirigenti del Pd isolano cosa dice?

Solo di prendere atto del risultato. In tutte le democrazie del mondo, si fa un passo indietro quando si perdono le elezioni. Non c’è nulla di punitivo in questa logica. È una semplice presa d’atto, ripeto. Invece non vedo nemmeno un tentativo di autocritica.

L’attuale classe dirigente deve farsi da parte?

Non è un problema di persone, ma di gestione. Si avverte l’assenza di una prospettiva, culturale e politica. Se la Sardegna si mobilita entusiasticamente intorno all’insularità, sino a considerarla la chiave che apre le porte del futuro, si ricava la misura esatta di quanto non si abbia contezza delle emergenze reali. Sventolare il vessillo dell’insularità è una cosa innocua, facile, financo populista.

L’alternativa qual è?

Tornare a parlare della condizione umana, del disagio, dei problemi e dei bisogni dei cittadini. Le parole libertà, dignità e uguaglianza sono sparite dal dibattito politico. Ma dalla crisi non si esce ottenendo l’inserimento dell’insularità in Costituzione. Il primo articolo della nostra Carta recita che l’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro, eppure il lavoro non ce l’hanno milioni di persone. Significa che non basta mettere nero su bianco un diritto o un principio: a sostegno di quel diritto o di quel principio vanno avviati programmi e azioni di governo, discutendo, per esempio sull’occupazione, anche di condizioni di lavoro, di rispetto e di dignità. Oggi chi parla più dello spopolamento? E non intendo dire solo quello delle zone interne delle Sardegna. Mi riferisco alla decrescita demografica in generale, che vale tanto nelle aree rurali quanto nelle città lungo la costa, e solo in minima parte è compensata dall’immigrazione. La disoccupazione è certamente un problema sociale. Ma la politica non parla più di futuro. Che resta oscuro portando con sé paure, insicurezze e incertezze. Manca uno sguardo lungo.

Il centrosinistra sardo deve ripartire da qui?

Centrosinistra è una parola magica, ma oggi rischia di avere un significato ambiguo. Chi si sente collocato politicamente in quest’area, cominci col definire cosa è diventato il centro e cosa si debba intendere per sinistra. Si riparta dai paradigmi ideologici.

Crede che le storiche categorie politiche siano tramontate?

No, ma è necessario ristabilirne i confini e i valori, perché non esiste più l’uniformità di orientamento che c’era un tempo.

Anche per questo hanno vinto i Cinque Stelle e la Lega ha fatto il pieno di voti?

M5s e Lega hanno saputo costruire una narrazione che l’elettorato ha trovato interessante. Ma si tratta di una semplificazione pericolosamente eccessiva della complessità sociale. M5s e Lega hanno vinto le elezioni attaccando la casta e gli immigrati. Nulla hanno detto sulle diseguaglianze. L’interpretazione semplicistica della realtà è un problema per la democrazia. Col suo ‘uno vale uno’, Grillo ha finto di ridare dignità al singolo cittadino: nella pratica tutti quegli ‘uno’ non hanno lo stesso valore, visto che globalizzazione vuol dire  il 90 per cento della ricchezza mondiale in mano al 10 per cento della popolazione. La posizione sociale non è identica, in termini di condizioni e opportunità. Mi viene in mente una canzone anarchica.

Quale?

Quella che diceva ‘la mia patria è il mondo intero, la mia legge è la libertà’. Ciò che un po’ è il sogno di tutti, quasi una tendenza spirituale. Ma senza programmi di governo adeguati, le diseguaglianza restano identiche. La Rete applicata alla politica regala l’illusione della parità. In Italia e in Sardegna manca l’intellettuale collettivo di cui parlava Gramsci, il principe democratico che dà voce ai più deboli. Oggi la politica ufficiale appare priva di anima, cuore e mente. E con anima intendo il farsi carico delle sofferenze e dei bisogni dei cittadini; il cuore rappresenta dalla capacità solidaristica e dall’empatia; la mente si concretizza nelle risposte e nelle soluzioni date. Oggi non c’è un senso comune, fatto di ideali. In Sardegna sino agli anni Settanta la politica si fondava su una triade: democrazia, autonomia e rinascita. E si trattava di un orizzonte condiviso, esisteva un consenso ampio intorno a questi tre principi. In questo tempo è del tutto assente una sintesi rappresentativa dell’essere comunità. È un grande lavoro quello che attende le nuove classi dirigenti.

Alle Regionali del 2019 chi parte avvantaggiato?

Il Movimento Cinque Stelle, non fosse altro che ha vinto il 4 marzo. Vero che non hanno mai partecipato a una competizione regionale e quindi nulla sappiamo sul modello di Sardegna che vogliono, sulla loro percezione dei problemi istituzionali, economici e sociali. Ma è difficile che l’elettorato, in pochi mesi, prenda le distanze dal movimento. Il sociologo Francesco Alberoni ha coniato una definizione: stato nascente, che è una forza nuova, un movimento di persone che si contrappone all’istituzione. Lo stato nascente gode di una fiducia acritica. È avvertito come particolare, speciale, è il favorito. Non che duri per sempre, ma è un vantaggio. Anche il Pd ha conosciuto questa fase, con la sua nascita nel 2007. Ma è durata pochissimo, il logoramento non ha tardato a travolgere il partito. Il Pd ha messo insieme due anime che nella storia politica italiana si sono contrapposte anche in maniera traumatica. L’operazione di fusione non sembra riuscita, così come non ha funzionato la vocazione maggioritaria.

La Lega di Salvini è ugualmente uno stato nascente?

Direi proprio di sì. Il cambio di strategia, da partito localistico a nazionale, ha determinato questa condizione. Che, ripeto, va riempita di contenuti perché sia durevole, non basta un picco di consenso. Ma nel breve periodo è difficile da scalfire. Salvini ha costruito la propria fortuna politica intercettando le pulsioni negative intorno ai migranti e oggi è diventato un senatore di Reggio Calabria. Fa impressione il passo compiuto dalla Lega: dall’acqua del Pò nelle ampolle alle colonne di Reggio Calabria.

Lei Mario Melis lo ha frequentato: cosa avrebbe detto dell’alleanza tra Lega e Psd’Az?

Il Partito sardo d’azione nasce con un peccato originale: una parte degli iscritti e dei militanti si era votata al fascismo. E ciò avvenne senza grandi traumi. Al Psd’Az hanno sempre aderito anche componenti borghesi e agrarie: lo studioso Salvatore Cubeddu ha a lungo approfondito queste tematiche. Poi, certo, negli anni Settanta e Ottanta il Psd’Az scelse con chiarezza da quale parte stare. Ma il conservatorismo è sempre stato una delle anime dei Quattro Mori.

In questi undici mesi che mancano alla fine della legislatura, cosa dovrebbe fare la giunta Pigliaru?

Non lo so. E nemmeno mi azzardo a dirlo. Pigliaru ha scelto un profilo amministrativo anziché politico, indebolendo molto l’autonomismo. Ma la sua è stata una decisione consapevole, di campo e non credo che il cambiamento arrivi a fine mandato.

Pigliaru, insieme al presidente del Consiglio Ganau, per l’insularità si sta spendendo.

L’insularità non è il problema centrale per la Sardegna, ma una condizione oggettiva. Che certo crea anche problemi, ma il mondo non è quello di prima. Oggi si può viaggiare pure senza la continuità territoriale. Da segretario regionale della Dc, feci una campagna elettorale con lo slogan ‘La Sardegna non è più un’Isola’. Stiamo parlando degli anni Settanta. Mi pare che la condizione di inferiorità dei sardi sia superata, non ci sentiamo più esclusi dal mondo. Perché tornare a parlare di isolamento? Il sardo di oggi è cosmopolita.

Come lo vede il Partito democratico sardo?

Potrebbe essere una delle soluzioni, se ci fosse una visione politica generale e coerente. Al momento non mi sembra di vedere in campo comportamenti reali differenti tra dirigenti sardi e quelli romani. Il Pd isolano è appiattito sulle posizioni nazionali, le prese di distanze finora non sono state nemmeno offerte. Le liste delle Politiche le hanno composte a Roma sulla base della stretta vicinanza ai leader nazionali e non c’è stata alcuna vera ribellione ai diktat imposti. Senza un ragionamento complessivo, il partito sardo federato diventa un’etichetta, nulla di più.

Le urne del 4 marzo non hanno premiato nemmeno il cartello indipendentista: 2,2 al Senato e 2,5 alla Camera. Considerando che erano otto partiti, ciascuno ha portato un consenso intorno allo 0,3.

L’indipendentismo sardo manca di realismo politico: oltre i proclami romantici e talune volte pure velleitari, non è indicata una strada. Manca una risposta ai problemi veri.

Cosa la spaventa di più dello scenario regionale?

Il pressapochismo.

Donne in politica.

Sono molto d’accordo sull’inclusione delle donne nella vita politica. Ma il problema di oggi non è l’inserimento femminile in una posizione paritaria. Il tema centrale è la capacità delle donne di affermare un proprio paradigma: sarebbe un errore applicare un modello identico a quello degli uomini, fondato sul potere fine a se stesso e sull’imposizione, ciò che ha caratterizzato il dominio maschile. Le donne dovrebbero portare le loro migliori attitudini: benevolenza, dialogo, generosità ed empatia.

Settant’anni di autonomismo: che bilancio si può fare?

È ora di riscrivere lo Statuto in chiave federalista. Trovando un punto di caduta tra il centralismo di Renzi e l’indipendentismo.

Alessandra Carta
(@alessacart on Twitter)

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