Con la filiera (fantasma) si fanno bei soldi

La filiera dell’agroindustria che dovrebbe alimentare le caldaie della costruenda centrale di Macchiareddu con biomassa prodotta in loco? Era e rimane un neologismo per specialisti, visto che non ce n’è traccia, nonostante sia stata definita dalla PowerCrop come “il nostro fiore all’occhiello, il vero cuore del progetto”. In effetti, non si può negare che la filiera, almeno sulla carta, sia davvero importante per PowerCrop: se non fosse stato firmato l’accordo tra le associazioni degli agricoltori, la regione e la stessa PowerCrop, “la società non avrebbe potuto incamerare i finanziamenti per la riconversione dell’ex zuccherificio di Villasor concessi da Unione europea e Stato. In tutto, circa 180 milioni di euro“, spiega il direttore di Coldiretti Luca Saba.

La filiera che non c’è

Era il 13 ottobre 2013 quando Sardiniapost raccontò la storia della filiera fantasma, ma da allora nulla è cambiato. “Con PowerCrop non ci sono stati nuovi contatti”, rivela oggi Saba. E aggiunge: “Ci risulta che la società abbia chiuso accordi solo con qualche agricoltore, per un totale di poche decine di ettari”. Ma per alimentare le caldaie di un impianto ad alta voracità come quello di Macchiareddu occorrerebbe, invece, destinare oltre sessantimila ettari da destinare alla coltivazione di colza, brassica carinata, eucalipti e triticale. Sulla possibilità che i campi del Campidano producano biomassa anziché cibo va giù duro Pietro Tandeddu coordinatore regionale della Copagri, che si dice “favorevole ai piccoli impianti che soddisfano il fabbisogno delle aziende agricole, ma assolutamente contrario alla sottrazione di ettari coltivabili per la produzione di energia”. “In ogni caso – aggiunge Tandeddu -, la Copagri non è mai stata contattata per la fornitura di biomassa”. In altri termini, nessun contratto è stato siglato.

Roma, ottobre 2007: firme sull’accordo

Il primo passo per la realizzazione della filiera agro-energetica fu fatto a Roma, presso il ministero delle Politiche agricole, il 31 ottobre 2007, quando Confagricoltura, Confederazione Italiana Agricoltori (Cia), Copagri, Regione Sardegna ed Eridiana-Sadam del gruppo Maccaferri firmarono l’Accordo di filiera, un’intesa di massima per la produzione di biomassa. Grande assente dal tavolo romano l’organizzazione di settore più rappresentativa, la Coldiretti, che non firmò l’accordo né chiuse contratti con PowerCrop per la coltivazione delle biomasse. Le trattative, che pure ci furono, si arenarono perché non si trovò l’intesa sul prezzo.

Ma allora come mai tanta fretta per la stipula dell’accordo di filiera? La risposta la fornisce Saba: “Senza quell’accordo, che vincolava la PowerCrop a utilizzare biomassa prodotta in loco, la società non avrebbe avuto accesso ai 180 milioni di euro destinati da Comunità europea e stato alla riconversione dell’ex zuccherificio di Villasor.

La Regione dà una mano a PowerCrop

Insomma, la filiera non è mai decollata. Ma allora la PowerCrop come dovrebbe rifornirsi di biomassa? Nel luglio 2011 accade che la Regione autorizza la PowerCrop a importare una quantità di biomassa maggiore rispetto al 70% del fabbisogno totale prescritto in un precedente atto di giunta. Un anno prima, infatti, la Regione aveva obbligato la società a impiegare per i primi tre anni una quota di biomassa locale pari al 30% del fabbisogno della centrale, in ottemperanza alle direttive comunitarie. Dal terzo anno, invece, la filiera locale avrebbe dovuto fornire il 70% della biomassa. Cosa significa? Semplice, che l’idea di produrre biomassa in loco, cioè l’idea della filiera, è stata affossata ab origine, dalla stessa società e dalla Regione che, infatti, nel luglio del 2011 autorizza la Powercrop ad importare quote più consistenti di biomassa.

Un enorme consumo di territorio

Ma si dia per buono quanto affermato dai dirigenti Powercrop, che pubblicamente sostengono di volere alimentare l’impianto con biomassa coltivata entro un raggio di 70 chilometri. Quanta terra è necessaria per raggiungere l’obiettivo?

Partendo dai dati relativi al fabbisogno della centrale, 350.000 tonnellate di biomassa all’anno tra cippato di eucalipto (220.000 tonnellate), brassica carinata – una pianta simile al colza – (74.000), grano duro (16.500) e olio di palma è possibile ricavare gli ettari che dovrebbero essere impiegati per la produzione di biomassa.

Ora, gli studi effettuati sugli eucalipti sardi mostrano che la resa ad ettaro si aggira attorno ai 1.160 quintali.  Per soddisfare il fabbisogno annuale di eucalipto della centrale a biomassa servono 1.900 ettari coltivati ad eucalipto. Ma c’è di più: è chiaro, infatti, che gli eucalipti non possono essere tagliati – per poi essere cippati, ossia ridotti a scaglie – annualmente. Così l’area da destinare a questa coltura aumenta a dismisura.

E comunque il cippato non basta: per alimentare la centrale a biomassa e i motori ad olio ci vogliono anche i semi di brassica carinata, considerata una pianta per bioraffineria. C’è, però, un inconveniente: la resa della brassica carinata, coltura già sperimentata in Sicilia, è piuttosto bassa: si aggira intorno ai 15 – 20 quintali all’ettaro. Anche in questo caso, i calcoli sono presto fatti: alla Powercrop servirebbero circa 50.000 ettari coltivati a brassica carinata.

Non è finita. All’impianto a biogas verranno infatti inviate 16.500 tonnellate di grano duro ovvero si dovrebbero sacrificare sull’altare delle biomasse altri 6.500 ettari di fertile terreno. In totale, oltre 60.000 ettari. Una superficie pari, cioè, a quella venuta a mancare negli ultimi vent’anni alla coltivazione del grano per la produzione di pane e pasta, che agli inizi degli anni ’90 ricopriva 90.000 ettari. Oggi, invece, sono circa 30.000.

Piero Loi

@piero_loi on twitter

 

 

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