La cipolla ‘ritrovata’ del Sulcis, ora ha certificazione Pat: al via la semina

Prodotto identitario, opportunità economica, nei campi di San Giovanni Suergiu parte la semina della cipolla, di recente certificata Pat, prodotto agroalimentare tradizionale. Il “tesoro del Sulcis” era custodito nelle case di pochi, sapienti e lungimiranti contadini. Croccante, dalle nuances rosa e bianco, dolcissima, versatile in cucina, altamente digeribile, con proprietà organolettiche uniche, di questa cipolla autoctona si erano perse tracce e semi ma non la memoria. La tenacia della sindaca, Elvira Usai, ha dato il via a un progetto di rinascita e valorizzazione.

Questa idea trova subito terreno fertile nel “Comitato cittadino per la Biodiversità” che, insieme alla collaborazione della popolazione, si attiva per la ricerca storica, l’indagine sui semi ritrovati negli stazzi vicini, la raccolta delle testimonianze degli “anziani saggi” del territorio ma anche la trascrizione delle memorie orali delle vecchie ricette gastronomiche tradizionali. Tutto il lavoro si concretizza in un disciplinare per la coltivazione, la promozione e la vendita. E nell’individuazione dei terreni, all’aperto, nei quali mettere a dimora il “piccolo tesoro ritrovato”. Per contrastare i “falsi”, spacciati come prodotti Pat e che provengono da altre parti del mondo la sindaca disegna e registra il marchio, lo assegna ai cinque unici, per ora, produttori certificati: la cipolla è salva e vola al Salone del Gusto di Torino. Apprezzata per i suoi accostamenti con il tonno o con le uova, la cipolla, si sposa o nel più classico “pani cun cibudda“, focaccia ripiena di cipolle e cotta nel forno a legna. Nel frattempo da ogni parte arrivano richieste di “collaborazione” per la sua trasformazione in conserve, confetture e, addirittura, utilizzarla nella birra. Gli chef di ogni regione si fanno avanti per “conoscerla” meglio. Gli emigrati sangiovannesi chiedono informazioni su come tornare e ridare vita a terreni abbandonati per produrre e commercializzare il prodotto. “Il nostro obiettivo è vedere i campi, ora abbandonati, nuovamente coltivati, magari dai nostri emigrati di rientro”, spiega Usai.

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