Un romanzo-reportage che racconta un’epoca. In libreria “Addio” di Angelo Ferracuti

Appartenere a una terra sfruttata e poi abbandonata, dove la miseria è il fantasma che attanaglia l’anima, non è una colpa. Il Sulcis Iglesiente, raccontato dallo scrittore marchigiano Angelo Ferracuti, è un deserto arido dove le lotte di classe e di potere, in mano alle multinazionali, affievoliscono le speranze per il futuro di operai, minatori e attivisti. Addio. Il romanzo della fine del lavoro edito da Chiarelettere è stato scritto da Ferracuti dopo un’appassionante, quanto faticosa, ricostruzione degli eventi attraverso le testimonianze corali di chi vive la realtà snervante della disoccupazione e delle vertenze industriali e minerarie. Non è solo un reportage, ma il racconto di un’epoca ancorata, fin quasi ad esserne ossessionata, dal valore genealogico del territorio. Qui, per generazioni, di padre in figlio, la ripetitività professionale è sempre stata una bandiera. Un po’ come accade per gli ultimi di Emile Zola.

Addio è  diviso in tre parti: le prime due raccontano la desolazione e la fine del lavoro nelle miniere, i pozzi abbandonati di Bacu Abis e Ingurtosu e il bacino carbonifero di Carbonia; l’ultima invece ripercorre le lotte per difendere il proprio posto di lavoro degli operai Eurallumina e Alcoa di Portovesme. Lo spettro della mobilità incombe ormai da mesi sulle famiglie, solo alcuni uomini hanno avuto il coraggio di partire per l’Arabia Saudita, la Norvegia o addirittura per l’Islanda. Gli altri sono rimasti, abbarbicati ai silos arruginiti, all’orgoglio e alla dignità.

In mezzo alla disperazione rimane l’esempio di chi la povertà e la crisi nera cerca di arginarle. Come, per esempio, Stefania Sechi, assistente sociale a Gonnesa, centro minerario di circa 5mila anime, che alza le braccia al cielo per l’aumento dei senza lavoro o di don Giorgio Fois, sacerdote di frontiera che, nella parrocchia San Pio X di Iglesias, distribuisce viveri e medicine.

Il Sulcis Iglesiente è la provincia più povera d’Europa, i pensionati sono circa 40mila, e la gran parte di loro si sono ammalati lavorando sottoterra o fra i miasmi velenosi delle zone industriali di Portovesme. Tant’è che il numero dei decessi per tumore è simile a quello della Terra dei fuochi, in Campania. L’analisi di Ferracuti è spietata, scientifica. Qui, dopo gli anni del fervore estrattivo e della riconversione industriale, è rimasto il nulla. In un’attesa straziante si attende la rivoluzione, e intanto si sopravvive.

Caterina Tatti

 

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