La cucina punk di Dario Torabi, “anarchia gastronomica” tra l’Isola e l’Iran

di Andrea Tramonte

Alla base c’è l’intuizione, la voglia di produrre dei piatti frutto di creatività, ricerca e ingegno. La cucina di Dario Torabi nasce da uno studio continuo e si basa su accostamenti che a volte risultano spiazzanti. Quinto quarto, prodotti di mare e frutta possono stare insieme e funzionare pure bene. “In questo lavoro bisogna avere il tempo per provare e uscire fuori con piatti forti di cui sei convinto – racconta lo chef cagliaritano 34enne -. È un processo creativo che poi va confermato da numerose prove. Niente di fine a se stesso perché altrimenti rischi di fare dei minestroni senza capo né coda. Mi piace pensare agli ingredienti come pezzi che possono combaciare anche in modo imperfetto per poi raggiungere un risultato finale che funzioni”. Torabi porta avanti i suoi processi di ricerca nel ristorante cagliaritano aperto qualche anno fa, Old Friend Bistrot, un luogo dove la sua cucina matura all’insegna di quella che chiama “anarchia gastronomica” (come il titolo del suo menù degustazione): “Una proposta senza regole, un’idea con cui gioco con il mio vecchio amore per il punk – racconta -. Faccio menù senza schemi e in base all’umore in cucina e alla reperibilità dei prodotti può cambiare totalmente. Mi piace che il cliente si affidi totalmente a noi e si lasci guidare in questo caos ordinato”.

La vocazione di Torabi nasce in casa. Il padre, iraniano, aveva un ristorante e questo lo ha portato a stare a stretto contatto con la cucina fin da piccolo. “Ho iniziato in maniera classica, all’estero, facendo una cucina tradizionale che è all’opposto di quella che faccio oggi. Quando ho capito cosa volevo fare veramente ho deciso di aprire il mio bistrot. Avrei smesso di fare il cuoco se avessi dovuto continuare a fare cucina canonica. Quello che mi diverte è  la concezione dei piatti, è quello che mi dà ancora voglia di fare questo lavoro”. La sua cucina è un mix di influenze perché Dario è figlio di un melting pot culturale e gastronomico insieme: nato e cresciuto a Cagliari, padre iraniano, madre piemontese, nonna veneta. “Porto tutte queste influenze nella mia cucina – racconta -. La mia è una cucina sarda non a livello di ricette ma di territorio e materie prime. Non sono cresciuto con una nonna che mi preparava i culurgiones, piuttosto riso basmati con spezzatino di montone, limone secco e altre spezie. La mia proposta è contaminata. Del resto la mia generazione è figlia di una globalizzazione buona, a volte siamo figli della seconda generazione di immigrati e la cucina va di pari passo, in modo spontaneo”. 

I piatti non hanno mai più di tre o quattro ingredienti. “Ispirazione nordica nella cucina – con una impronta minimalista – e anche nella concezione del lavoro. Ma la nostra fortuna è avere materie prime migliori. Nella new nordic si sono inventati fermentazioni e metodi di conservazione perché per sei mesi non hanno niente. Noi invece abbiamo materie prime pazzesche che cambiano di continuo. Non riesco a tenere un menù per più di un mese perché al mercato trovo un sacco di cose diverse”. Se è vero che Torabi cambia moltissimo, ci sono certamente dei punti fermi che lo caratterizzano. Il quinto quarto, ad esempio, che insegna anche all’accademia di cucina Coi a Baradili. “L’animale è composto di tutte le sue parti. Non mi fermo alla parte nobile e uso il cosiddetto scarto. Anche dei pesci: col fegato di ricciola facciamo il patè, con le uova del pesce una salsa con l’anduja. Mi piace usare tutto e mi sembra giusto valorizzare ogni parte dell’animale, anche in ottica di sostenibilità. Ma poi usare le parti meno nobili significa riuscire a dare un menù degustazione a un prezzo più contenuto. Inoltre il quinto quarto non era molto usato a Cagliari e mi piaceva inserirmi in uno spazio poco battuto. E proponendolo nel migliore dei modi facciamo capire ai clienti che si tratta di parti buonissime. Così facciamo un po’ di cultura del cibo”. Ma se gli chiedi quali siano in generale le materie prime che lo caratterizzano maggiormente, Torabi spiega di cambiare ogni mese. “Tutti i colleghi hanno piatti signature, noi cambiamo troppo spesso. Ma questo non vuol dire mancare di coerenza, perché siamo riconoscibili e portiamo avanti un percorso preciso. Ma con una evoluzione costante”. Certo non può mancare il risotto, anche grazie alle sue origini piemontesi. L’ultimo che ha creato è mantecato con erborinato inglese, servito con una riduzione di Cannonau della cantina Sa Defenza di Donori, chips di pollo e poi alga kombu, con cui realizza una polvere che riproduce il logo della band punk americana dei Black Flag

“Un piatto che mi piace molto è lo spiedino di cuore e cipolle servito con una salsa a base di midollo e nocciole, che poi condiamo col sommaco, spezia che si usa in Iran per le carni arrosto. Un piatto molto contaminato che potrebbe sembrare quasi sardo, per via delle interiora arrostite, ma frutto di influenze diverse”. E ancora, nell’ultimo menù c’è anche una tartare di manzo con bottarga di spigola prodotta da loro, asparagi e chips di purè di patate. “Il mio interesse è che chi si siede al ristorante non debba stare lì a cercare di capire i piatti, ma goderne. Non mi interessano le robe concettuali. Il mio compito è farti divertire, con una cucina di livello ma indirizzata a tutti. Non mi interessa avere un ristorante dove i miei amici non possano venire. Voglio una cucina democratica e contemporanea e abbattere il muro dell’alta ristorazione che a volte respinge ed esclude. Odio la riverenza nei confronti del cuoco: ti do da mangiare e ti godi la serata. Cerchiamo una via di mezzo, con un servizio curato ma non formale, con attenzione al cliente ma senza farti sentire come se fossi in un tempio”. 

La voglia di divertire si manifesta anche nella proposta delle amuse-bouche, gli snak che servono prima degli antipasti e che vengono presentati anche esteticamente in modo originale, con una serie di piatti realizzati dal designer Matteo Buccoli con avanzi di cantiere: dai cracker di maiali e spezie alle chips di nervetti. Il locale dà spazio a opere di artisti amici – Roberto Follesa, Nicola Testoni, Emanuele Boi, Carlo Giambarresi – e punta in modo deciso sui vini naturali. “Con il mio collaboratore Matteo Atzori,sommelier, lavoriamo bene e abbiamo scelto i vini naturali non solo perché beviamo esclusivamente quelli ma anche perché è riuscito a orchestrare degli abbinamenti con sapori forti come i nostri. E poi ci piace far conoscere piccole realtà, artigiani del vino. Anche così facciamo cultura”.

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