Poligoni militari, missioni e malattie: sì alla commissione d’inchiesta

Una commissione d’inchiesta monocamerale indagherà sui casi di morte e di grave malattia che hanno colpito il personale militare impiegato in missioni all’estero, nei poligoni di tiro e nei depositi di munizioni. Due numeri per rendersi conto della situazione: finora, sono stati accertati 314 decessi,  mentre i militari che si sono ammalati sono circa 3.600. Sollecitata da due diverse proposte di inchiesta parlamentare depositate dalle deputate Donatella Duranti (Sel) e Maria Luisa Lorefice (M5s), poi accorpate, la decisione è stata presa dalla commissione Affari Costituzionali della Camera e ora il provvedimento tornerà in commissione Difesa per il definitivo via libera. La nuova commissione d’inchiesta, che resterà in carica per i prossimi due anni, avrà il compito di studiare morti e patologie che affliggono il personale militare in relazione a “particolari fattori chimici, tossici, radiologici dal possibile effetto patogeno, con particolare attenzione alle nanoparticelle prodotte dall’esplosione di materiale bellico”, si legge nel resoconto della seduta della Commissione.

“La pericolosità non viene pertanto individuata solo in riferimento all’uranio impoverito”, ha sottolineato la relatrice della proposta d’istituzione Celeste Costantino (Sel). Ai venti deputati che comporranno la commissione viene anche richiesto di esprimersi “sull’adeguatezza della raccolta e dell’analisi epidemiologiche dei dati sanitari relativi al personale militare e civile sia di quello operante nei poligoni e nelle basi militari e sull’appropriatezza dell’equipaggiamento protettivo utilizzato dal personale e sull’idoneità”. Oltre che “sull’adeguatezza degli istituti d’indennizzo, di natura previdenziale e di sostegno al redditto per i soggetti colpiti dalle patologie imputabili all’attività militare”.

A tal proposito, non più tardi di due mesi fa, aveva fatto notizia il parere favorevole del Tar di Cagliari sulla vicenda dell’ex sergente della Divisione Centauro Antonio Cancedda, ammalatosi di Morbo di Hodgkin dopo “aver lavorato a mani e torso nud sui carri guasti durante le esercitazioni nel poligono di Teulada, sempre a contatto con polveri ed elementi tossici. Senza mascherine o protezioni”. Il ricorso era stato presentato contro il Ministero della Difesa, che si è sempre opposto all’erogazione di sussidi a favore del militare.

Più recente, invece, la sentenza con cui i giudici del Tar Piemonte hanno sancito “la sufficienza del nesso probabilistico statistico tra l’esposizione all’uranio impoverito e la malattia”. La decisione presa dal tribunale amministrativo nell’accogliere il ricorso di un soldato trentaduenne affetto da una rara forma di tumore al pancreas, ha ribaltato la consuetudine secondo la quale devono essere i soldati a dimostrare la relazione tra l’utilizzo di armamenti arricchiti con l’elemento radioattivo e l’insorgenza di patologie tumorali. Da quel momento in poi l’onere di produrre evidenze scientifiche che smentiscano il nesso di casualità è ricaduto sul Ministero della Difesa.

La sentenza del Tar Piemonte va a sommarsi a quella emessa dalla Corte d’Appello di Roma dell’8 marzo scorso (e depositata ieri), che ha respinto il ricorso presentato dai ministeri della Difesa e dell’Economia contro la pronuncia in primo grado sulla causa civile promossa dai genitori e dai parenti del caporal maggiore dell’Esercito morto per linfoma di Hodking nel 2005, tre anni dopo aver preso parte a una missione in Kosovo. In quel caso, la Difesa avrebbe dovuto “adottare tutte le opportune cautele” contro il rischio di contaminazione da uranio impoverito per i militari italiani in missione all’estero.

Piero Loi

 

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