“Mia moglie uccisa dall’amianto nel suo ufficio in città”

”Mia moglie, la mia Rita, non torna più – dice con la voce rotta Mario Schinardi –  ha combattuto con una voglia di vivere che lasciava tutti stupiti, anche quando arrivò quella diagnosi senza appello: nessuna possibilità di guarigione. Non siamo riusciti a salvare lei, ma forse possiamo ancora riuscire a salvare altre vite o almeno aiutare altre persone, che hanno lavorato insieme a lei o in luoghi di lavoro simili al suo. Per questo ho deciso di parlare”.

La “diagnosi crudele” fu fatta nel 2004 dall’ospedale di Brescia, che stilò il referto su richiesta dell’Ospedale Binaghi di Cagliari: mesotelioma pleurico, un tipo di cancro che non “si prende” per caso, ma è una patologia correlabile quasi esclusivamente all’esposizione all’amianto. Tanto che è una delle malattie professionali per le quali è obbligatoria la segnalazione alle autorità preposte – Inail, Direzione provinciale del Lavoro, Spresal (Servizio prevenzione e sicurezza degli ambienti di lavoro) e i Re.Nam.Cor, cioè i centri regionali del registro nazionale mesoteliomi). Questo in base a un decreto del 27 ottobre del 2004. Proprio l’anno della diagnosi che, però, fu fatta qualche mese prima del decreto, a luglio. Così non ci fu alcuna segnalazione.

E, d’altra parte, che relazione poteva esserci tra l’amianto e il lavoro di Rita che per tutta la vita aveva fatto l’impiegata amministrativa? Non l’operaia in una  “fabbrica della morte” come la Eternit di Casale Monferrato, ma l’impiegata dentro un ufficio. Per un lungo periodo  (dal 1973 al 1986, quando fallì) quello della Comer, una concessionaria della Mercedes che aveva sede a Cagliari nel Viale Elmas. Un’officina uguale a chissà quante altre che esistevano in quegli anni e anche negli anni successivi. Ed è proprio  questo il punto. E’ questa la ragione per cui il caso di Maria Rita Demontis è diventato di rilievo nazionale. Perché rivela che i lavoratori a rischio per l’esposizione all’amianto sono molti di più di quanti si crede. Non non solo quelli delle “fabbriche della morte”.

LA FINESTRA SULLA MORTE

La finestra dell’ufficio di Rita Demontis si apriva sul grande cortile  interno della Comer. “Là venivano eseguiti gli interventi di riparazione sulle autovetture e anche le lavorazioni sui ferodi e i freni, totalmente in amianto, per adattarli alle vetture straniere –  spiega Mario Murgia, vicepresidente nazionale dell’ Aiea  (Associazione italiana esposti amianto) – Vi era quindi un’elevata dispersione nell’ambiente di polveri e fibra di amianto, aggravata sia dalle correnti d’aria, sia dalle operazioni di pulizia, spolvero e ramazzo della stessa officina. Queste operazioni, che inquinavano anche gli uffici, venivano svolte da personale totalmente privo di protezione”.

A queste polveri si riferiva la stessa Rita Demontis,  rispondendo alle domande del  questionario relativo alla operatività e all’ambiente lavorativo della Comer che porta la firma  del funzionario della Regione sarda Maurizio Pergola. La data è  10 ottobre 2007. Le stesse cose sono scritte nere su bianco in una testimonianza resa volontariamente da  alcune colleghe di Rita Demontis anni dopo.

L’INAIL SBATTE LA PORTA IN FACCIA

Quando, dopo un calvario di quattordici anni, realizzò l’esistenza di una relazione tra la sua malattia e l’ambiente di lavoro, Rita Demontis decise di chiedere il riconoscimento della causa di servizio.  “Nel febbraio del 2006 – racconta Schinardi – mia moglie presentò la domanda per il riconoscimento della malattia professionale. Stava già molto male, ma non si arrendeva, come era nel suo carattere. Aveva affrontato sempre tutto con una dignità infinita: era una persona allegra e solare, che dava forza a chi le stava intorno, fiaccata nell’organismo, giammai nel morale”.

La risposta dell’Inail arrivò il 23 ottobre del 2007. Poche righe asettiche e glaciali: ”Gli accertamenti effettuati per il riconoscimento della malattia professionale per la signora Demontis Maria Rita consentono di ritenere il tipo di rischio lavorativo cui è stata sottoposta, non idoneo a provocare la malattia denunciata”.

“Mia moglie non chiedeva la luna – prosegue Schinardi – voleva solo il riconoscimento dei diritti previsti dalla legge, anche perché in quei quattordici anni avevamo impegnato tutte le nostre risorse alla ricerca di questo male inafferrabile e inesorabile, tentando cure nuove. Per esempio a Brescia, dove sono altamente specializzati, anche con farmaci di nuova generazione acquistati negli Usa. Ma era ormai troppo tardi”. Rita Demontis morì il 26 maggio del 2008. Aveva sessant’anni.

Spiega Mario Murgia. “La signora Demontis ebbe il primo versamento pleurico nel 1992, ironia della sorte lo stesso anno del varo della legge 257/92. Ne seguirono altri otto, uno all’anno: un vero calvario, con molteplici cure e ricoveri. Per anni nessuno, nonostante i vari ricoveri ospedalieri, ha correlato i versamenti pleurici all’esposizione all’amianto o ad un ambiente lavorativo comunque contaminato da prodotti tossici”.

La legge del 1992 prevede benefici previdenziali per i lavoratori esposti all’amianto per un periodo comprovato e per tutti quelli esposti oltre i dieci anni, previa certificazione Inail dell’ambiente di lavoro e delle mansioni in cui si è svolta l’attività operativa.

“Non ti possiamo ridare la salute e neanche la vita, ma ti possiamo aiutare a curarti, a lasciare il lavoro nocivo e a campare quello che ti resta un po’ più dignitosamente: questa, in poche parole la sostanza della legge”, così commenta  Schinardi. Ma per Rita Demontis non ci fu nemmeno quel sollievo. Arrivarono le porte sbattute in faccia, la ‘sentenza’ dell’Inail e, sette mesi dopo, la morte.

Ma di porte sbattute in faccia ce ne furono anche altre, “post mortem”, quando Mario Schinardi, con il sostegno di Mario Murgia e di Sabina Contu,  delegata  dall’Aiea  per dare assistenza agli eventuali casi di malattia professionale in Sardegna, a ottobre 2010, presentò all’Inail, la richiesta di rendita al superstite,  corredandola anche con le testimonianze sottoscritte da due colleghe della moglie: “Le polveri pure di amianto non venivano catturate da alcun aspiratore o mascherina, ma lasciate libere di volare, data la corrente d’aria persistente fra i portali del capannone con i tetti in eternit, si adagiavano ovunque, si posavano sugli indumenti degli astanti e venivano tranquillamente respirate...”. Anche questa volta, nel gennaio 2011, arriva il secco “no” da parte dell’Inail: “…la morte non è riconducibile all’evento, pertanto nulla di quanto previsto dalla legge spetta ai superstiti”.

Tanti gli interrogativi ancora aperti, ma uno fra tutti: quali sono stati   e come sono stati fatti da parte degli enti preposti  gli accertamenti sulle reali condizioni di lavoro della Comer, previsti anche nel caso di aziende cessate o il cui titolare risulti irreperibile?

E’ accorato Mario Schinardi, non ci sono più lacrime, solo l’infinito rimpianto di non aver potuto fare di più per la salute e la vita della persona più cara e amata. Ma anche tanta determinazione e voglia di combattere per gli altri: ”La vita non ha prezzo. Non penso venalmente al denaro, bensì a tutti coloro che hanno lavorato, in quegli anni, nello stesso ambiente in cui è stata mia moglie. Voglio giustizia per lei e per i suoi colleghi: ho cercato di rintracciarli, ma è difficile ed io non ho i mezzi, sono passati tanti anni, non esistono più neanche i capannoni con le coperture in eternit di Viale Elmas 156 e poi 212…Chissà se ci sono altre persone che si sono ammalate ma non sanno che può trattarsi di asbestosi o peggio di mesotelioma.… e quanti casi di lavoratori ex esposti o dei loro familiari, di cittadini deceduti a causa di una patologia maligna asbesto correlata vengono ‘archiviati’ senza certificare la vera causa”.

Carmina Conte

 

 

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