LA STORIA: Un compleanno da brivido per i 95 anni dell’ex deportato

Il signor Modesto Melis aveva un triste compleanno da dimenticare. Era l’11 aprile del 1945 quando compì 25 anni nel campo di concentramento di Mauthausen, in Austria. All’epoca c’era ben poco da festeggiare: prigioniero politico della Germania Nazista, lontano dalla famiglia e dagli amici a migliaia di chilometri dal suo paese natale Gairo, era allo stremo delle forze, pesava poco meno di quaranta chili e pressoché nessuna speranza di uscire vivo dal campo. Si salvò solo perché riusci a farsi spedire in un’officina dove si riparavano gli aerei, lui che non aveva mai lavorato coi motori, qui rimase finché i campi furono liberati dai soldati americani e si mise in fuga insieme agli altri sopravvissuti.

Oggi, settant’anni dopo quell’11 aprile, il compleanno di Modesto Melis ha una luce diversa: è il sole di primavera che scalda le campagne del Gerrei, tutto intorno vigne, colline dolci e prati di un verde accecante. A novantacinque anni il reduce di Mathausen ha scelto di festeggiare lanciandosi con un paracadute da quattromila metri di quota. In tandem, lo accompagna il paracadutista Valentino Deriu, “Ma io sarei sceso anche da solo – commenta Melis mentre indossa la tuta prima del volo – non ho alcuna paura. E del resto non è il primo lancio con il paracadute”. Verissimo, infatti è il dodicesimo: erano i primi mesi del 1942 quando Modesto Melis si lanciava con gli altri della Divisione Paracadutisti “Folgore” in Toscana, al servizio di una guerra che un anno dopo avrebbe lasciato migliaia di soldati allo sbando sul territorio italiano. Con l’armistizio dell’8 settembre 1943 i militari si ritrovarono senza più ordini, davanti alla scelta di stare con la Repubblica Sociale di Salò o unirsi alla Resistenza. Melis come tanti altri soldati cercò la fuga dai Nazifascisti e visse per qualche tempo nascosto nei dintorni di Firenze. È qui che venne catturato con l’accusa di lavorare per i Partigiani e deportato insieme ad altri prigionieri politici verso il campo di concentramento di Gusen, a pochi chilometri dal più grande Mauthausen.

La sua storia è raccontata da Giuseppe Mura in “L’animo degli offesi”, pubblicato due anni fa dall’editore Gianpaolo Cirronis. La narrazione di Melis, lucidissima e viva, settant’anni dopo trova riscontro negli archivi e nelle carte: il numero di matricola dentro il campo, la descrizione delle capanne, la camera a gas, i morti accumulati dentro le fosse o sopra i carri. Tutto questo è un insieme di ricordi dolorosi di cui l’ex deportato di Gairo non riesce a liberarsi, e forse non vuole neppure. Modesto Melis è presidente dell’Associazione Mutilati e Invalidi di Guerra di Carbonia, la città dove vive ormai da anni, e da tempo ha scelto di raccontare e condividere i fatti atroci di cui è stato testimone in prima persona per non dimenticare, perché la nostra memoria non cancelli l’orrore di quei giorni. Qualche mese fa Melis è pure tornato a Mathausen insieme al figlio Bruno e a qualche amico: “Orribile tornare lì – ci ha confessato questa mattina a Serdiana – il campo di Gusen dove sono stato dall’agosto 1944 fino al 5 maggio dell’anno dopo è stato completamente trasformato, ma a Mauthausen si vedono perfettamente le tracce del campo nazista e c’è ancora la camera a gas”.

Oggi però è il giorno della festa: al Campo Paracadutisti di Serdiana c’è la sua famiglia (quasi) al completo, la moglie Lucia, i figli, i nipoti, i vecchi compagni della Folgore che nonostante l’età hanno ancora la forza di cantare slogan e cori. Sono le 11,30 circa quando il piccolo areoplano con nonno Modesto a bordo prende il volo, 20 minuti dopo raggiungerà quattromila metri di quota. L’aereo è quasi invisibile nel cielo ma vediamo tre lanci, piccolissimi puntini in caduta libera nel nulla. Fiato sospeso per alcuni secondi, finalmente il paracadute che regge Valentino e Modesto insieme si apre. La discesa è lentissima, i due ondeggiano con leggerezza trasportati dal vento mentre a terra l’emozione di parenti e amici è indescrivibile. A duecento metri inizia la planata verso il prato, tutti gli occhi verso il cielo, l’atterraggio è salutato con un chiassoso applauso liberatorio.

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Ci facciamo largo tra i nipoti e gli amici che lo circondano, i tanti che gli scattano foto e cercano un selfie con lui, i compagni ex militari che intonano ‘Tanti auguri’ mentre la moglie piange di commozione, finalmente riusciamo a raggiungere il nonnino appena atterrato e chiediamo com’è stato vedere la terra da lassù. Solo un aggettivo, mentre gli occhi sorridono per la grande emozione: “Bellissimo”.

Francesca Mulas

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