I piccoli siti archeologici in bilico tra chiusure e caccia agli sponsor

Quale futuro per i piccoli siti archeologici sardi? Per il ministro alla Cultura Franceschini il 2015 è stato un anno d’oro per i musei e i siti italiani ma le cifre dei piccoli centri parlano di crisi e di chiusure. I dati governativi indicano afflussi record nei più importanti musei e monumenti della penisola: Colosseo, Uffizi, Pompei. Milioni di turisti hanno garantito introiti massicci grazie ai biglietti d’ingresso. Il Lazio, solo per fare un esempio, ha avuto quasi 20 milioni di ingressi e oltre 62 milioni di euro di introiti (la Sardegna poco più di 450 mila visitatori, con conseguenti introiti ridotti). Cifre impressionanti se rapportate a quelle dei piccoli siti, gestiti il più delle volte da Cooperative, società e consorzi che vivono soprattutto grazie ai finanziamenti delle rispettive regioni di appartenenza (i musei nazionali, invece, sono controllati direttamente dallo stato). Molti di questi siti e musei sono stati costretti a chiudere i battenti e parecchi si trovano in Sardegna.

La vicenda continua e i siti a rischio in Sardegna sono numerosi. La denuncia dell’Agci Sardegna, l’Associazione generale delle cooperative italiane, che raggruppa oltre la metà delle cooperative impegnate nella gestione dei siti e dei musei sardi, conferma questo trend.
La mancanza di risorse è il limite. I fondi che la Regione aveva messo a disposizione nel bilancio 2015 non sono bastati. Non è una novità, ecco perché siti – che dovrebbero rimanere aperti tutto l’anno – chiudono per qualche mese, mettendo a repentaglio il lavoro e la vita dei circa 600 lavoratori che si occupano della gestione del patrimonio artistico isolano. Sì, perché oltre ai dipendenti legati ai siti archeologici, in busta paga ci sono anche archeologi, guide, addetti alla biglietteria e ai servizi, operai e giardinieri, circa due terzi abbondante dell’intero patrimonio dei beni culturali sardo. Senza dimenticare i dipendenti delle biblioteche e degli archivi regionali. Il problema è sempre lo stesso: la Regione non stanzia il dovuto e non riceve nessun tipo di finanziamento per questo tipo di servizio da parte dello Stato e lo stesso Stato non reinveste gli introiti della gestione culturale a tutti i livelli nella tutela e valorizzazione del patrimonio culturale isolano. A rischio ci sono anche realtà come nuraghe Losa ad Abbasanta, il pozzo sacro di Santa Cristina di Paulilatino, solo per nominarne alcuni. I dati parlano chiaramente: 53 siti gestiti da 30 cooperative. I Comuni sono i titolari dei siti e le cooperative che li hanno in gestione sono costantemente in apprensione. C’è persino chi è rimasto mesi senza stipendio, indebitandosi con le banche e garantendo comunque l’apertura del sito. Ancora si va avanti con proroghe annuali o triennali nonostante nel 2006 sia stata approvata la legge regionale che, finalmente, prevedeva la nascita del piano di gestione dei beni culturali dell’Isola. Solo sulla carta, perché la legge regionale di riordino non è stata mai attuata praticamente e tuttora regnano proroghe e incertezza.

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Il futuro dei piccoli. E allora, che cosa può essere fatto per tutelare questi piccoli siti? Spesso gli intenti politici, le norme e il buon senso non combaciano. Sulla carta esistono i finanziamenti garantiti dalla ex 28, per una proroga che garantirà una copertura sino al 31 dicembre di questo anno. E poi? “E poi bisognerà ottimizzare le risorse”, afferma Roberta Sanna, direttore regionale del Servizio Beni Culturali e Sistema Museale, “molte problematiche potrebbero essere risolte con una gestione coordinata di siti e musei”. Chi fa da sé fa per tre? “In parte è così”, continua Sanna, “i siti potrebbero essere raggruppati per “sistema tematico” o “territoriale” e i siti dovrebbero essere almeno parzialmente sostenibili, anche perché i fondi pubblici non possono fornire il cento per cento”. Servirà inventiva, ma non dovrebbero essere abbandonati: “Servirà anche l’intervento di privati, i siti potrebbero trovare nuova linfa con una serie di servizi accessori: bookshop, servizi di ristorazione, baby parking, solo per fare qualche esempio”. Ai servizi aggiuntivi potrebbero essere accostati soldi dei fondi comunitari: “Che però non possono essere utilizzati appositamente per i siti”, puntualizza la direttrice, “ma potrebbero venire usati per quei servizi accessori e per le spese di gestione. Quel che nuoce è la parcellizzazione, se io fossi un turista andando a visitare Montessu gradirei mi venisse offerto un pacchetto integrato, magari il borgo medievale di Tratalias e la chiesa romanica, la cantina del Carignano di Santadi, magari il tutto proposto con un biglietto unico”. In questo contesto che ruolo avrebbe la Regione? “La Regione potrebbe fornire una sorta di assistenza tecnica. Come succede in campo agricolo, dove esiste un’azione informativa mirata per i soggetti che gestiscono le aree. Anche per le cooperative e società che gestiscono i siti si potrebbero organizzare dei corsi di stampo imprenditoriale su come gestire e aggregare i siti e sfruttare all’occorrenza eventuali finanziamenti europei. Sarebbe una molla per fare di più”, conclude la Sanna, “l’eccesso di assistenzialismo, infatti, per chi si adagia, potrebbe essere un male”.

LE FOTO

 

Qualcosa dipenderà anche dal tanto strombazzato piano nazionale di riordino dei beni culturali (che secondo Franceschini dovrebbe rivoluzionare la gestione), anche se per quanto riguarda i piccoli musei e la maggior parte dei siti le competenze saranno esclusivamente locali. La paura, oltre all’aspetto economico e all’isolamento, è anche un’altra: che le novità nazionali annunciate (così come per il mondo delle guide turistiche professioniste) aprano le porte ai colossi nazionali e internazionali, in grado di divorare in un attimo le piccole realtà isolane. Nel frattempo, in mezzo a tanta incertezza, i turisti (che sono quelli che dovrebbero portare i soldi in Sardegna) sentitamente ringraziano.

Federico Fonnesu

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