Alle battute finali il processo contro gli undici presunti terroristi di Al Qaeda

L’ennesima udienza del lunghissimo procedimento penale contro gli undici pakistani – cinque dei dei quali ancora detenuti –  ritenuti dalla Dda di Cagliari e dalla Digos di Sassari facenti parte della cellula terroristica sardo-lombarda legata ad Al Qaeda si è svolta quest’oggi nell’aula bunker del supercarcere di Bancali, a Sassari. Il processo, che va avanti dall’ottobre del 2016, prosegue a tappe forzate dopo l’ordinanza della corte d’Assise di Sassari, presieduta da Pietro Fanile, che nell’ottobre scorso aveva prorogato di altri sei mesi la carcerazione preventiva degli imputati, giunta ormai al termine massimo di tre anni. Una ordinanza contro la quale i cinque difensori dei presunti terroristi pakistani hanno proposto appello al tribunale del riesame di Sassari, che esaminerà il delicato caso il 10 dicembre prossimo.

In caso di accoglimento della richiesta difensiva di nullità dell’ordinanza – i legali hanno argomentato il loro ricorso forti di una sentenza a sezioni unite della Corte di Cassazione che ribadisce il termine massimo della detenzione preventiva nei tre anni previsti dalle norme vigenti – i cinque pakistani ancora detenuti dovranno infatti essere rimessi in libertà seduta stante. Nel frattempo il processo è proseguito oggi con la deposizione del professore in scienze informatiche Bruno Pellero, un docente universitario genovese che ha tenuto una avvincente lectio magistralis sulle intercettazioni elettroniche, ambientali e satellitari quale consulente tecnico del pubblico ministero della Dda Danilo Tronci.

Il professore, uno dei massimi esperti in intercettazioni a livello europeo, ha parlato di come vengono trasmessi nell’etere gli sms, che vengono ricevuti e gestiti da un server inglese che li smista tra le varie nazioni dell’emisfero est (Europa, medio oriente, Africa e Oceania) trasformando i bit in parole e immagini, trasmessi da pc o telefonini, questi multimi quasi sempre identificabili e individuabili. Un mondo affascinante che naviga nell’etere attraverso cellulari, personal computer e smartphone di ultima generazione, il tutto intercettabile dall’autorità giudiziaria, e non solo. Questo nel caso in cui tra le diverse nazioni esistano regolari rapporti di collaborazione e cooperazione giudiziaria.

Non è il caso del Pakistan, ha spiegato il consulente, in quanto il paese mediorientale rientra tra le nazioni che non hanno sottoscritto rapporti bilaterali ed è considerato ad alto rischio per la presenza di diversi gruppi terroristici e di associazioni di fondamentalisti islamici. Ricostruzioni necessarie per spiegare la valenza della tesi accusatoria nei confronti dell’imam di Bergamo, Hafiz Muhammad Zulkifal, al cui cellulare, nel 2011, arrivarono una serie di messaggi che parlavano di stragi in Pakistan e sollecitavano l’invio di danaro, oltre a diverse telefonate in fonia partite dallo stesso numero. Per i difensori dell’Iman si tratta di sms falsi, mentre per l’accusa sarebbero una delle prove che il religioso islamico faceva proselitismo per la Jihad e raccoglieva fondi da inviare alle scuole coraniche fondamentaliste in Pakistan.

Nel pomeriggio ha parlato, a favore del connazionale, anche Thair Ajaht, il tesoriere del centro islamico Ar Rahma (La Clemenza) di Zingonia (Bergamo), che ha spiegato come veniva effettuata la raccolta di fondi tra i connazionali e i musulmani della provincia e come tali somme, anche ingenti, siano investite per la comunità aprendo nuove moschee e scuole coraniche destinate all’’istruzione dei ragazzi della comunità. Dove teneva lezioni anche l’Imam Hafiz Muhammad Zulkifal, pare contestato da diversi connazionali per le sue predicazioni ritenute troppo integraliste e inneggianti alla guerra islamica.

Nella prossime udienze, tra domani e la fine del mese, parleranno la parola, per spontanee dichiarazioni e memorie, l’imam e il presunto capo della cellula olbiese, il commerciante pakistano Sultan Wali Khan, quindi il dibattimento dovrebbe concludersi, con l’avvio della requisitoria e delle discussioni finali prima della sentenza.

Gli undici componenti della presunta cellula terroristica affiliata ad Al Qaeda finirono in carcere nell’aprile del 2015, a conclusione di una operazione diretta dalla Dda di Cagliari e dalla Digos della questura di Sassari. I negozi e le abitazioni di Sultan Wali Khan, stando alle tesi accusatorie, nascondevano diversi scopi: la raccolta di fondi illegali tra la comunità mediorientale, soldi destinati al finanziamento delle scuole coraniche in Pakistan, la copertura per il traffico di immigrati clandestini e, l’accusa più grave, quella di aver ideato e pianificato azioni terroristiche ordinando diversi attentati in Pakistan, il più grave dei quali, quello contro un mercato pubblico nella città di Peshawar, messo a segno con auto bomba nell’ottobre 2009, dove persero la vita centinaia di persone tra i quali decine di bambini. (g.p.c.)

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