L’oro velenoso della miniera di Furtei. L’illusione prima dell’inquinamento

“Loro si sono presi l’oro e poi sono scappati”. Basterebbe questa frase pronunciata da un anziano abitante di Furtei per sintetizzare la storia della miniera di Santu Miali, ‘El Dorado’ sarda con un epilogo fallimentare. A raccontare, sulle pagine del Venerdì di Repubblica, la situazione attuale del sito è Angelo Ferracuti, scrittore e giornalista, che ripercorre le varie tappe di una vicenda che ha lasciato un ‘testamento’ carico di veleni agli abitanti e ai territori della zona. “Mi ha colpito questo fatto del sogno dell’oro – racconta Ferracuti – come capita spesso nei luoghi un po’ decentrati c’è l’illusione che possa arrivare una ricchezza improvvisa. Allora arrivano le multinazionali che costruiscono la narrazione del sogno e anche gli amministratori, anche in buona fede, cadono nel tranello”.

Il riferimento alla fuga con l’oro riguarda gli australiani della Bronte Holding e General Resource che, nel 1991, misero radici in Sardegna e, assieme alla Regione, formarono due anni dopo la ‘Sardinia Gold Mining’. Ferracuti ricorda la fusione che diede vita al primo lingotto, nel 1997, un evento che in tanti videro come un successo ma che mise sull’attenti diverse associazioni ecologiste, come Amici della terra e Gruppo di intervento giuridico, che chiesero ufficialmente di avviare la Valutazione di impatto ambientale senza essere mai ascoltati.

La multinazionale australiana (racconta Ferracuti) diede lavoro a 110 persone e tutti sembravano contagiati dalla ‘febbre dell’oro’, tutti tranne il sindaco di allora, Ignazio Congiu, socialista alla guida di una giunta di centrosinistra. Il lavoro di quattro miniere a cielo aperto è durato dieci anni, i lavoratori diminuirono a 41 e intanto il territorio subiva una devastazione paesaggistica per produrre in totale 5 tonnellate d’oro, sei di argento e quindicimila di rame per il valore complessivo di 80 milioni di euro. Angelo Ferracuti riporta un dato significativo: “Da ogni tonnellata di terra si producevano tre grammi di metallo nobile”.

Luciano Gallino, grande sociologo, ha scritto due libri uno sulla Olivetti, intitolato ‘L’impresa responsabile’, un altro ‘L’impresa irresponsabile’ che è quell’impresa che non ha radici nei territori – racconta ancora Ferracuti – come è accaduto per l’impresa australiana che agisce per il profitto. In Sardegna questa cosa non è nuova purtroppo. Ci sono aziende che arrivano, chiedono aiuti, occupano un po’ di persone. La storia dell’Alcoa è sintomatica”.

Nel 2008 iniziò la parabola discendente con gli australiani che andarono via da un giorno all’altro, operai senza il lavoro e uno strascico di liquami tossici da bonificare. Il bacino degli scarti sembra un paesaggio lunare, una spiaggia di due milioni di metri cubi di veleni. Ferracuti incontra un ambientalista che coordina i comitati sardi e che racconta di “imprese che arrivano, promettono il paradiso con la connivenza di politici locali e poi producono devastazioni”. Le bonifiche del territorio sono iniziate nel 2017 che pesa sulle casse della Regione per 65 milioni di euro e di cui si occuperà Igea.

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