Discriminazioni di genere sul lavoro: una bella vittoria fra tante ingiustizie

di LILLI PRUNA

Il primo marzo, a Cagliari, due lavoratrici a cui da oltre un anno era stato rescisso ingiustamente il contratto di lavoro da parte dell’Inps, hanno firmato un nuovo contratto con l’Istituto. Le due donne, medici legali, avevano perso il lavoro con l’Inps per ragioni legate alla maternità, che in Italia continua a rappresentare il più potente fattore di discriminazione sul lavoro, nel settore pubblico come nel privato. La relazione tra maternità e lavoro è tuttora molto problematica e mette in luce la resistente divisione dei ruoli di genere nel nostro paese: l’organizzazione della società si regge ancora largamente sulle responsabilità di cura delegate alle donne e sulla loro partecipazione “accessoria” o “transitoria” al mercato del lavoro. È considerato normale, perfino opportuno, che una donna lasci il lavoro per accudire un figlio piccolo, e poco importa se la donna il lavoro preferirebbe tenerlo o se proprio quel lavoro le ha dato la serenità economica necessaria a mettere al mondo un figlio. Sono decine di migliaia le lavoratrici-madri che ogni anno lasciano “spontaneamente” il lavoro, ma più spesso è il lavoro che lascia loro, quando vanno in maternità o quando ritornano.

Eppure bisogna rendersi conto che oggi la maggior parte delle donne che ha o che vuole avere figli, ha o vorrebbe avere anche un lavoro. Le donne che non hanno un lavoro, che incontrano grandi difficoltà a trovarlo o a mantenerlo, sono meno propense ad avere figli (la mancanza di un lavoro può tradursi nell’assenza di figli o in un numero di figli inferiore a quello desiderato). Nella retorica sulla fecondità bisognerebbe tenerne conto: le donne decidono se e quando avere figli, e il quando è spesso legato ad una relativa sicurezza o indipendenza economica. In definitiva, il lavoro è necessario alla maternità, ma le regole del mercato, i comportamenti dei datori di lavoro, la cultura e l’organizzazione della società e del welfare ostacolano sia la partecipazione al lavoro che le scelte riproduttive delle donne. L’Italia infatti è tra i paesi europei con i più bassi tassi di occupazione femminile e anche i più bassi tassi di fecondità. Basta poco per accorgersi che non c’è traccia di tutto questo nei programmi politici e nella visione miope del paese che continua a prevalere.

La vicenda delle due lavoratrici, entrambe madri, che avevano perso il lavoro all’Inps per una palese ingiustizia, una ordinaria discriminazione, si è conclusa positivamente grazie all’intervento di due donne: la consigliera regionale di parità, Tiziana Putzolu, e la direttrice regionale dell’Inps, Cristina Deidda. I nomi sono importanti, perché questa vicenda insegna prima di tutto che sono le persone a fare le istituzioni, nel senso che è la loro competenza e serietà a dare senso alle istituzioni che rappresentano. I due casi si sarebbero potuti concludere anche in altro modo, forse con un risarcimento economico, ma per le due lavoratrici ottenere giustizia significava riavere il lavoro, e riaverlo al più presto. Non sarebbero riuscite ad avere giustizia senza la forte determinazione della consigliera di parità e la stretta collaborazione con la direttrice dell’Inps, che hanno risolto la vicenda con risolutezza anche se le condizioni giuridiche erano avverse, come è stato sottolineato dalla consigliera di parità.

La consigliera regionale di parità è in carica da meno di un anno, e solo nel primo mese il suo ufficio ha ricevuto oltre venti segnalazioni da parte di lavoratrici che hanno dichiarato di avere subito discriminazioni o abusi sul posto di lavoro. Le segnalazioni che giungono all’ufficio della consigliera di parità riguardano casi diversi e dolorosi, che dimostrano quante sopraffazioni e umiliazioni devono subire le donne che vogliono lavorare. Benché se ne parli poco, la gran parte delle violenze contro le donne non è rilevata dalle statistiche e non riguarda la sfera familiare. L’Istat ha stimato che in Italia un milione 404 mila donne (pari all’8,9% per cento delle lavoratrici attuali o passate) ha subito molestie fisiche o ricatti sessuali sul posto di lavoro, ma queste cifre non considerano tante altre forme di ordinaria discriminazione, di cui è intessuta la vita lavorativa e le carriere professionali delle donne in un paese in cui si ritiene ormai raggiunta la parità tra i generi.

 

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