Il mirto, colore e sapore di Sardegna: una tradizione che viene dall’antichità

Si avvicina la stagione del Mirto, bacca da cui deriva il tradizionale liquore sardo, le cui origini antiche sono intrecciate ai profondi valori simbolici attribuiti a questa pianta. Per i produttori del celebre distillato è alle porte il momento più importante dell’anno: da novembre a gennaio, dopo la fioritura estiva, le bacche di mirto giungono finalmente a maturazione. Generalmente, per garantire una produzione di buon livello, qualitativo e quantitativo, dicembre è il mese migliore. In questo periodo i frutti sono ricoperti di purina, una sostanza che ne opacizza la superficie, indicando il grado di maturazione degli stessi, proteggendoli dai raggi ultravioletti e dall’eccessiva disidratazione. Tradizionalmente la raccolta viene fatta a mano, per rispettare il più possibile la pianta, alternativamente viene usato un ‘pettine’ a denti larghi che, senza arrecare danno alle foglie, stacca le bacche che vengono subito lavorate per conservare al meglio il loro aroma ed il loro colore.

Forse non tutti sanno che esistono più di tremila specie differenti di mirto e che, sin dall’antichità, dalla pianta del mirtus comunis, appartenente alla famiglia delle myrtaceae, veniva estratta una bevanda, comunemente chiamata ‘vino di mirto’. Per produrre tale nettare le bacche venivano fermentate nell’acqua o nel vino e poi addolcite con del miele. Fu in Sardegna, intorno all’Ottocento, che la produzione del rinomato liquore, ottenuto per infusione alcolica, venne perfezionata, sostituendo il precedente e meno raffinato vino con l’attuale distillato. L’interesse nel voler estrarre l’essenza di questa pianta ha diverse origini: se, da un lato, il profumo dei fiori e lo strutturato sapore delle bacche sono stati sempre apprezzati, dall’altro, alla pianta di mirto, è storicamente attribuita una valenza positiva.

Il nome mirtus deriva dal latino e fu tratto dal termine greco myrto, poiché legato alla figura mitologica di Myrsine. Secondo la mitologia greca Myrsine era una fanciulla che venne uccisa da un ragazzo, invidioso per essere stato battuto da una giovane donna nei giochi ginnici. Atena, dea della sapienza, delle arti e della guerra, provò pena per lei e la trasformò in questo arbusto odoroso e sempre verde. Fu per via dell’associazione al mito di Myrsine che gli antichi greci usarono rami di mirto per cingere il capo dei vincitori dei celebri giochi olimpici. Il filosofo e naturalista Plinio racconta che fu il primo albero che i Romani piantarono sulla piazza pubblica, e che lo riguardavano come sacro. Inoltre i trionfanti soldati, in segno di vittoria conseguita senza spargimento di sangue, se ne cingevano il capo con una corona.

In numerosi testi i classici, greci e latini, questa pianta è oggetto di racconti e metafore che lo consacrano alla dea dell’amore, della bellezza e della fertilità: Venere. Il mirto è uno dei simboli iconografici ad essa attribuiti poiché si credeva che fosse propizio alla nascita, e alla longevità, dell’amore fra le persone. Secondo gli antichi poeti, quest’arboscello era, fra tutti, il più delicato e piacevole alla vista ed i suoi fiori producevano un profumo soave, portatore di pace, in grado di rappresentare la pacata gentilezza della Dea, che aveva in odio la violenza, la guerra e le discordie.

Fu sempre Plinio a definire questo arbusto come myrtus coniugalis avviando la tradizione per cui, gli sposi, durante il banchetto nuziale, portavano sul capo corone di mirto. Sino all’epoca rinascimentale, questa pianta continuò ad essere legata al matrimonio, comparendo spesso nelle allegorie, come simbolo di fedeltà ed amore eterno. Tutt’oggi, nei paesi anglosassoni, simboleggia la felicità coniugale, ed è di buon auspicio che alcuni rami della pianta vengano inseriti nel bouquet nuziale. Il colore bianco e la delicatezza dei fiori del mirto simboleggiavano anche, in modo più generico, la purezza e la femminilità tanto che durante il medioevo i medici e gli erboristi li utilizzarono per creare un profumo che veniva chiamato ‘acqua degli angeli’.

Molto più di un frutto aromatico è dunque racchiuso nel tradizionale liquore sardo che conserva, nel proprio inebriante profumo, una antica tradizione di accoglienza e convivialità: un rituale di chiusura del pasto e che ci lega, nella storia della nostra civiltà, in un momento di profonda armonia e di bellezza.

“Voi dunque partirete con gioia e sarete condotti in pace. I monti e i colli davanti a voi eromperanno in grida di gioia (…) invece di ortiche cresceranno i mirti”. Isaia 55 12-13

Gaia Dallera Ferrario
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