Emozioni cromatiche e colori vivaci, l’arte e il segno indelebile di Brundu

Ci lasciava cinque  anni fa Gaetano Brundu, personaggio di spicco della scena sarda della seconda metà del XX secolo, nato a Cagliari nel 1936, si avvicinò all’arte da autodidatta. Fondamentale per la sua affermazione furono, unite al talentuoso estro, le sue grandi doti sociali. Brundu era a contatto con tutti i personaggi dell’arte e della cultura che in quel momento gravitavano in Sardegna, da Corrado Maltese e Gillo Dorfles, allora docenti di storia dell’arte dell’ateneo cagliaritano, a Tonino Casula, Ugo, Primo Pantoli con i quali condivise l’esperienza del collettivo ‘Studio 58‘. Fu in questo contenitore che si svilupparono idee legate ad una nuova identità artistica, politica e culturale che si muoveva in una direzione libera e concettuale, operando un abbandono dei soggetti legati al territorio e alle sue tradizioni, a favore di elementi astratti, semplici e geometrici.

È del 1959 la sua prima personale, ospitata nella biblioteca universitaria di Cagliari, nella quale omaggiò Alberto Burri, maestro dell’arte informale, e Lucio Fontana, con i suoi concetti spaziali, rielaborando una propria sintesi di queste esperienze e facendole convergere nei ‘sacchi tagliati’. Fra il 1965 e il 1967 Brundu visse una parentesi parigina che arricchì il suo immaginario di influenze vicine alla pop art.
Il rientro sancì l’inizio della professione di docente presso il Liceo Artistico della sua città natale, nonché il compimento del percorso di maturazione di una propria cifra stilistica, individuata in quel segno che avrebbe contraddistinto tutta la sua opera comunemente battezzato ‘baffo del leone’. Di questo periodo sono alcune illustrazioni per libri e la realizzazione di imponenti murales a Monastir, Selargius e Settimo San Pietro, esperienza che condivise con altri artisti tra cui il compagno Casula.

Nella sua produzione pittorica Brundu ha saputo coniugare rigore compositivo ed emozione cromatica, ricorrendo all’uso di colori vivaci, quali arancioni, blu, rossi e gialli e dimostrando una grande abilità decorativa che non è mai scaduta nell’ornamentalismo. Il valore della sua intuizione non fu nella creazione di un segno ma nella sua efficacia, che rimanda ad un indecifrabile linguaggio arcaico, sempre contemporaneo poiché universale. Nelle sue opere pulsa un ritmo primitivo immerso in uno spazio in cui la prospettiva è assente. Il suo ‘baffo’ è impulso e poesia, è molto più vicino all’istinto che alla razionalità e non rappresenta nulla che appartenga all’universo delle cose, seppur sia ancestralmente familiare ad ognuno di noi. Dare un significato oggettivo a un segno è pressoché impossibile e Brundu ne era ben consapevole. Il suo alfabeto, per quanto limitato, risulta dunque potenzialmente illimitato: esso non risponde a un valore estetico, bensì funzionale, includendo qualcosa di subliminale, che attinge alla sfera dell’initimità e connette ad un livello profondo l’artista e lo spettatore. Quello espresso nelle tele di Brundu è dunque uno spazio che, attraverso le possibili combinazioni di segno e colori, è in grado di assumere i valori dell’armonia, della tensione, dell’equilibrio e dell’inquietudine. La storia della pittura del segno, che dalla nascita dell’arte astratta giunge ai giorni nostri, conferma l’attualità di questo percorso che ha voluto veicolare, in un simbolo, concetti universalmente leggibili, non meno di quanto si sforzi di fare il design dal quale però si distingue attraverso l’azione diretta e partecipata, che ben differisce dalla riproduzione seriale.

Peculiare di Brundu era anche l’attitudine sinestetica, che applicava a favore di un superamento dei confini tra diverse discipline come l’arte visiva, la musica, il teatro, il cinema o la letteratura. Appassionato di fotografia scattava innumerevoli ritratti durante gli eventi artistici e culturali di Cagliari le cui stampe venivano poi regalate ai personaggi che aveva immortalato. Negli ultimi anni la sua ricerca si concentrò nell’elaborazione al computer di foto-cartoline: incroci, periferie, muri, scritte rallegrati dai suoi baffi all’improvviso senza però mai scegliere macchinari o programmi sofisticati. Se il lavoro pittorico è espressione di uno sguardo introspettivo, quello grafico e fotografico è, per Brundu, una forma di presentazione diretta della realtà. Non gli interessa tanto la dimensione artistica in senso canonico, quanto l’immagine comune prelevata dalla quotidianità e sottoposta al pubblico in quanto tale. Come per Andy Warhol, massimo esponente della Pop Art che si dedicò intensamente all’attività fotografica, il coinvolgimento della fotografia non deve necessariamente passare attraverso un esercizio di manualità e tecnica, assimilabile invece a quello che occorre alla pittura. “Vorrei essere una macchina” : questo lo slogan con cui, Warhol stesso, riabilitò il ricorso alla meccanica automatica ponendo l’evidenza sull’utilizzo concettuale del mezzo. In questo senso, rispondendo al proprio contesto storico, l’arte di Brundu ci accompagna in un percorso di liberazione in quanto nata da un’intuizione pura, quasi fanciullesca, che prescinde dai tecnicismi e dall’esercizio della volontà.

Gaia Dallera Ferrario
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