In between: Al Palazzo di città l’arte rappresenta le Urban interferences

Capita, a volte, che i percorsi dell’arte, che vive tempi e dinamiche spesso distanti dal quotidiano, coincidano con l’attualità e ne anticipino avvenimenti e problematiche sociali. È il caso di In between, Urban interferences. Al Palazzo di Città, dal 21 novembre al 7 dicembre 2013. In esposizione le opere di dieci artisti che riflettono sulle dinamiche di trasformazione dello spazio urbano contemporaneo.

A cura di Emanuela Falqui e Marco Peri, la mostra fa parte del programma SIGNAL/ART del festival “Da dove sto chiamando” prodotto da Autunno Danza e SIGNAL, in collaborazione con i Musei Civici di Cagliari.

“In-between, Urban Interferences”, si inserisce nel dibattito sulla ricerca progettuale in cui il tema dello “spazio” come entità complessa, ricca di proprietà solide e materiali, cui si affiancano componenti, quali la luce e il colore, le immagini e il suono, è diventato centrale.

Per mostrare i profondi processi di trasformazione dello spazio metropolitano e per interrogarsi sulla loro sostenibilità e confrontarsi con una molteplicità di sguardi, interpretazioni, rappresentazioni, cercando di ricomprendere nei frammenti e nelle differenze, la traccia di una realtà in divenire.

Anche se gli artisti hanno preparato le loro opere ben prima dei fatti, il nostro pensiero si collega, fatalmente, ad una realtà strettamente attuale: quella dei recenti eventi che hanno martoriato Sardegna e sono conseguenza proprio delle disordinate trasformazioni degli spazi.

Nel bell’allestimento al Palazzo di città il percorso inizia con l’installazione “Sur Ground” di Manuel Attanasio. Un cumulo di terra che si anima all’avvicinarsi del visitatore ricorda che è materia geologica vivente, che respira e reagisce alla continua azione umana e di conseguenza urbana. Il concetto di interferenza ricopre più significati che in ogni caso riportano allo stesso punto: la reazione.

Le disorientanti mappe geografiche di Stefano Marongiu richiamano le strette maglie di un pianeta sotto controllo, siano esse le telecamere a circuito chiuso o le continue scansioni del globo fatte dai satelliti. L’opera cita i segnali da motori di ricerca e inquadramenti militareschi. Il risultato visivo è un paesaggio/mappa immaginario che concede la sensazione di sentirsi completamente persi.

Il “Mental Worksite” di Mei Zi Qian è un cantiere mentale rappresentato da una serie di edifici in costruzione. È il “Ritratto di Dorian Gray”, dell’essere umano, della natura e del loro reciproco rapporto. Il cemento, elemento costitutivo delle realtà urbane e, dunque, strumento della selvaggia trasformazione di natura e paesaggi, diventa il materiale più adatto a rappresentare la spaccatura tra uomo e natura e lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo.

L’opera di Federico Carta racconta di una cementificazione incontrollata, di connessioni urbane in cerca di armonia, di case e palazzi cresciuti in blocco. Un paesaggio abitato da tralicci, antenne, scale, discariche e la natura, trasfigurata in fantastiche piante, invadenti che sembra riprendersi il suo spazio.

The Big Green, opera filmica di Marta Anatra è una presenza clorofilliana ciclica ed eterna, che si insinua sulle crepe del cemento e sulle fessure della pietra. Più duratura delle piramidi rinasce da se stessa ed eternamente si moltiplica, invade, soffoca e ricopre con le sue numerose braccia tutto ciò che l’uomo ha abbandonato.

E poi il progetto fotografico Framework di Paolo Marchi di cui abbiamo già parlato su questo blog (cliccate qui), il filmato 6×3 di Stefano Fois, dove un gigante bambino, confuso tra gli edifici, cerca e non trova l’orizzonte della distesa urbana che lo circonda.

Ancora Vincenzo Grosso con il suo “Hierauf”, una possibile visione futura, l’avvertimento per un cambio di direzione e Alessandro Olla con “I am because you are”, un progetto di antropologia sonora e identità acustiche tra Cina, Etiopia e Islanda. L’opera indaga l’evoluzione frenetica di importanti centri cittadini di Cina e Africa, paesaggi in continuo mutamento, consumati e corrosi dal cemento e dalla modernizzazione.

Infine “Overlapping Discrete Boundaries” di Alessandro Carboni che racconta una mappatura dei luoghi di cui si fa esperienza, una geografia emozionale che coinvolge la sensibilità ma che agisce attraverso i tempi di una ricerca condotta con cura.

Una mostra multimediale, ricca di spunti e contaminazioni con opere che sono specchio dell’attualità artistica contemporanea, che fa della multimedialità uno strumento di racconto straordinario.

Attraverso diversi campi di indagine gli artisti riflettono sulla trasformazione e sull’identità dello spazio urbano in cui il concetto in-between – architettura tra le cose – diventa la linea di congiunzione del rapporto complesso tra l’essere umano, la natura e l’architettura.

Paesaggi reali o immaginari, visioni urbane, sonorità dell’anima raccontate con il linguaggio dell’arte mai astrusa, ma aperta all’attualità. Opere diverse, legate però da un fil rouge che traspare chiaramente: lo straniamento di fronte a spazi urbani invadenti ed innaturali, opera di un uomo che ha dimenticato il senso del costruire e dell’abitare.

E forse anche il senso della vita.

Enrico Pinna

 

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