Ripartire dalla cultura tribale sarda

Dall’ex assessore regionale all’Agricoltura Andrea Prato, riceviamo e pubblichiamo.

Dopo aver trascorso una giornata intera con il filosofo Domenico De Masi, ben nove anni fa, nel chiostro della chiesa di Santa Maria in Bethlem, mi sono a lungo interrogato su quale fosse il modello sociale più adatto per noi. Nel tempo, ho raggiunto il convincimento che noi sardi dovremmo fare tra passi indietro per compiere quei dieci che mancano da troppo tempo. Scrissi nel 2009 questa mia idea di “decrescita pilotata”, nel mio primo libro “Meglio un contadino laureato che un avvocato disoccupato”. Quest’anno, in occasione del mio viaggio nei misteri della zona franca, ho completato il percorso.

Per millenni, siamo stati un popolo fiero, felice, indipendente. Il modello sociale si reggeva sul concetto di tribù, dove si rispettava il vicino, anche se non lo si amava, dove si sapeva chiaramente quali fossero i reali bisogni della piccola collettività, dove si produceva tutto ciò che occorreva e le eccedenze servivano solo per barattare con altri ciò che mancava. Si lavorava per vivere, non si viveva per lavorare (su questo tema, suggerisco di leggere il bellissimo saggio “L’ozio creativo” del sociologo Domenico De Masi che dimostra quanto la produttività non sia necessariamente correlata al numero di ore impiegate).

Un sistema completo che ha permesso al sardo di allora, primitivo ma con il principio della reciprocità nel suo Dna, di costruire una grande civiltà che è stata capace di realizzare opere uniche al mondo come i complessi nuragici e la loro rete articolata che funzionava come un moderno sistema di comunicazione.

Anche con chi veniva dal mare, si scambiavano i beni: gli stranieri giungevano sulle nostre spiagge bianchissime e deponevano gli oggetti che intendevano cedere agli indigeni, i quali con un elevato senso etico ed una ridotta ingordigia, decidevano quale fosse il valore della merce proposta e senza neanche incontrare i naviganti, prelevavano i beni e lasciavano altri prodotti per ripagare equamente il controvalore.

Nei nostri geni siamo sempre quelle persone, non siamo un popolo capace di gestire il potere o di razziare, tranne qualche pecora nera, lo stesso banditismo partiva da un suo codice comportamentale. Ciò che accadde dopo è frutto delle commistioni tra popoli e culture che ci hanno trasformato profondamente, personalmente ritengo che parte della nostra insoddisfazione dipenda proprio dal fatto che inseguiamo miti ed obiettivi non nostri ma figli dell’emulazione.
Siamo rimasti molto simili ai sardi che vivevano in tribù e lo spopolamento delle zone interne ha evi tato che il percorso di questa sotto specie di evo luzione fosse irreversibile.

Per ritornare al sardo fiero e indipendente bisogna tornare indietro a quell’uomo che Appio Claudio Cieco, definiva “homo faber fortunae suae”, l’uomo artefice della propria sorte. Dobbiamo riprendere quel cammino interrotto con l’avvento degli spagnoli nel 1323, da allora tutti i dominatori hanno cercato di educarci da masse informi, da radunare all’occorrenza per il bisogno del viceré di turno. Ci hanno educato alla rabbia ed alla frustrazione, a poca carota e molto bastone, a tradire la tribù vicina per una carota in più. Della nostra cultura tribale ci hanno lasciato solo l’ipocrita ignoranza di affermare la nostra magnifica differenza rispetto ai vicini di altre tribù.

Qui nasce la nostra atavica incapacità di unirci insieme per difendere la stessa causa, se il primitivo sardus faber è passato alla storia per aver realizzato una civiltà indimenticabile, il sardo suddito degli spagnoli, dei piemontesi, degli italiani, del fascismo e del marxismo per cosa si è distinto? Cosa ha fatto di indimenticabile? L’emblema della nostra pochezza è dato da un fatto davvero singolare: la pagina più gloriosa scritta dai sardi in ottocento anni di storia, della quale ci ricordiamo con unanime fierezza, è quando i nostri avi hanno combattuto per il loro re padrone e non padre, sui monti di Cortina d’Ampezzo, nella grande guerra con le gloriose divise della Brigata Sassari. La Sardegna ha versato sangue per liberare quei popoli che per ringraziarci, quando i nostri conterranei sono tornati li per cercare lavoro, sono stati trattati con disprezzo, come figli di un Dio minore.

Mai nessuno ha versato sangue e sperma per il nostro bene e forse mai lo farà, spetta a noi risollevarci. Bisogna cogliere gli aspetti positivi di vivere su un’isola e smentire chi ci consiglia di andare a cercare fortuna all’estero. Opponiamoci al pregiudizio che siamo destinati ad essere come i topolini che fanno cadere il grano della ruota e crogiolarci nel nostro vile vittimismo. La nostra storia, le nostre pietre non parlano ma ci guardano e attendono che ci rialziamo da soli per aggiustare le cose per conoscere una nuova età della pietra e dell’abbondanza.

Andrea Prato

 

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