Sono stati 442.939 gli elettori sardi andati alle urne del referendum (mancano ancora da scrutinare tre sezioni su 1.835) e per il 92,40 per cento hanno votato Sì (410.049). Il risultato colloca l’Isola come quinta regione che si oppone alle trivelle nella fascia delle 12 miglia, nettamente sopra la media nazionale dell’86,24 per cento (qui la classifica completa). Il totale dell’affluenza è stato invece del 32,38 per cento e colloca la Sardegna sempre oltre la soglia italiana ferma al 32,15 (ecco i numeri).
Il messaggio uscito dalle urne è chiaro e vale un avviso alla Giunta di Francesco Pigliaru nell’ottica della programmazione futura. È di gennaio 2016 la presentazione del Piano energetico regionale definito “intelligente” dallo stesso governatore e dall’assessore all’Industria, Maria Grazia Piras, con “produzione più legata alla domanda locale e spazio alle rinnovabili”. Il Piano costa 150 milioni, con un duplice risultato annunciato: “Abbattere del 50 per cento i costi in bolletta e ridurre le emissioni di CO2 del 30 per cento entro il 2030”. Si aggiunga che a dicembre dello scorso anno Pigliaru ha partecipato alla conferenza Onu di Parigi sui cambiamenti climatici (Cop21), in qualità di presidente della commissione Ambiente costituita all’interno del Comitato delle Regioni europee: in quell’occasione l’Italia ha anche sottoscritto la riduzione dalla dipendenza energetica da combustibili fossili per una quota del 40 per cento entro il 2050. E si tratta di obiettivi sui quali i sardi hanno messo la firma alle urne.
Non è dunque di poco conto il peso degli elettori andati alle urne per il referendum, specie se il numero è paragonato al dato delle Regionali 2014, quando i votanti furono 774.939. La differenza in valore assoluto è di 365mila, ma due anni fa si sceglievano i rappresentanti nella massima assemblea. Non solo: Pigliaru e la coalizione di centrosinistra avevano raccolto 312.982 preferenze. Vuol dire che alla consultazione popolare sulle trivelle ha partecipato un’elettorato ben più ampio rispetto a quello ascrivibile alla coalizione di governo, anche considerando i soli Sì, pari come detto a 410.048.
Chiuse le urne sul referendum, in Sardegna si apre anche il problema politico interno al Pd: come noto il presidente del Consiglio, Gianfranco Ganau, è stato lasciato solo a sostenere l’abrogazione della scadenza illimitata data dal governo di Matteo Renzi agli impianti estrattivi entro le 12 miglia. E questo è avvenuto dopo che la stessa Assemblea regionale votò la richiesta di consultazione popolare. Era il 23 settembre. Solo il dem Gavino Manca si oppose. D’accordo tutti gli altri 58 consiglieri di maggioranza e opposizione, visto che Pigliaru (il 60° componente dell’Aula) era assente.
Sulla linea del No, il governatore Pigliaru e il segretario Renato Soru si sono trovati sullo stesso fronte del Governo, anche se il primo è andato alle urne, mentre Soru non ha mai detto che avrebbe votato. Ma il problema politico nel Pd va ben oltre queste differenze. Per Soru c’è da superare l’ostacolo del 5 maggio quando arriverà la sentenza nel processo per evasione fiscale che sarà determinante per una leadership già messa a rischio dal divorzio consumato con gli ex alleati della maggioranza congressuale (le correnti di Antonello Cabras, Paolo Fadda e Silvio Lai).
Dalla definizione dei rapporti di forza all’interno del Partito democratico dipende il futuro assetto della Giunta Pigliaru e la possibilità di un rimpasto. È questo il quadro che, il giorno dopo il referendum sulle trivelle, è all’esame delle forze politiche isolane.
Alessandra Carta
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