Piano casa, l’architetta ai politici sardi: “Lo sviluppo non va ridotto al mattone”

Il Piano casa sta per approdare in Aula, nella versione ‘corretta’ ieri dal vertice di maggioranza convocato a Villa Devoto dal presidente Christian Solinas. Rispetto alla precedente versione, totalmente ‘mattonara’, dal ddl 108 il centrodestra ha stralciato l’aumento di cubature nella fascia dei trecento metri dal mare: erano previsti nuovi volumi sino al 50 per cento, in nome del Covid. Sulla revisione del testo, in qualche modo obbligata visto il vento dell’impugnazione che nelle settimane scorse ha fatto soffiare la sottosegretaria grillina Alessandra Todde, abbiamo chiesto un’analisi a Teresa De Montis, che a Cagliari e nel Sud Sardegna guida l’Ordine degli architetti.

Presidente, sul Piano casa la maggioranza al governo dell’Isola ha corretto la rotta. Anche voi in queste settimane avete picchiato duro. Come architetti sardi vi prendete un pezzetto di vittoria dopo la marcia indietro del centrodestra?

Per noi, che sul Piano casa abbiamo sempre preso posizione come federazione, cioè attraverso una linea condivisa da tutti e quattro gli Ordini provinciali, sarebbe una vittoria solo la stesura concordata di un testo normativo. I tecnici dovrebbero essere chiamati prima, per accompagnare il lavoro di elaborazione delle norme. Non dopo.

Ma non vi piace l’azzeramento dei volumi sul mare?

Certo, è un fatto positivo. Ma la discussione sul Piano casa non va ridotta alle cubature fuori e dentro la fascia dei trecento metri. Sarebbe riduttivo.

Si capisce che, insieme ai suoi colleghi, il Piano casa del centrodestra lo cestinerebbe volentieri.

Non conta chi l’ha fatto. La nostra critica è tecnica, non politica. Noi eticamente ci siamo posti un problema: il dovere professionale di intervenire in difesa della Sardegna. I presupposti dell’analisi non sono ideologici ma pratici. Di tutela e salvaguardia. L’ambiente è da solo un paletto, un argine. Non c’è bisogno di retropensieri.

Ha idea di cosa può succedere oltre i trecento metri dal mare, se passa il premio volumetrico del 50 per cento?

Purtroppo la diseconomia delle cubature non viene mai tenuta in considerazione. C’è una certa tendenza a pensare il mattone portatore di ricchezza, sempre e comunque. Sino a considerarlo motore dello sviluppo. Tuttavia così non è. Un carico eccessivo di volumni è un problema. La possibilità di edificare andrebbe invece subordinata al recupero dell’esistente e alla riqualificazione ambientale. Questa sì che è una visione strategica di Sardegna, perché da un lato tiene conto delle peculiarità territoriali e dall’altro della vocazione dei Comuni alla programmazione. È la pianificazione degli enti locali a determinare la qualità di un modello economico. Al riuso del costruito andrebbe destinata una quota parte dell’importo dei lavori.

Appartiene molto alla cultura del centrodestra l’equiparazione tra mattone e sviluppo.

Non ne farei una questione partitica. È la politica, in senso lato, che spesso utilizza l’edilizia come strumento per promuovere nuova occupazione. Ma senza strategia a medio e lungo termine, costruire diventa un costo per la collettività anziché un valore. Noi architetti vogliamo progettare, ma avendo ben chiaro un elemento: ciò che andiamo ad aggiungere in termini di costruito deve addizionare qualità. È un controsenso pensare di riqualificare il patrimonio edilizio esistente senza far leva sulla promozione del riuso.

In Sardegna, gli architetti sembrano molto più ambientalisti degli ingegneri.

Devo dire che moltissimi ingegneri hanno manifestato, anche apertamente, il proprio dissenso rispetto a questo Piano casa. Posso citare, in particolare, Aidia, l’associazione italiana donne ingegneri e architetti che ha inviato un comunicato molto ben strutturato col quale si prendono le distanze dal ddl 108. Nella relazione il Piano casa viene considerato un testo tecnicamente sbagliato.

Cosa vuol dire?

Vuol dire che gli obiettivi enunciati nei diversi articoli non possono essere raggiunti applicando le norme indicate. C’è uno scollamento tra i fini dichiarati e le regole scritte nel testo normativo.

Un esempio?

Lo sviluppo dei centri minori sarebbe compromesso se effettivamente si costruissero, come previsto nel ddl, insediamenti turistici in prossimità delle località attrattive, quindi lontani dall’edificato esistente. Va invece fatto il contrario. Ovvero nei Comuni piccoli occorre promuovere attività come l’albergo diffuso, attraverso il quale si recuperano gli immobili vuoti. Certo, vanno consentiti e autorizzati gli ampliamenti per realizzare quei servizi necessari a rendere competitiva una struttura ricettiva. Ma ogni altra soluzione non creerebbe lavoro a lungo termine. Un nuovo insediamento non in prossimità dai centri esistenti determinerebbe l’impoverimento degli stessi piccoli Comuni, oltre che uno sfregio al paesaggio.

Lo vuole fare un appello e spiegare perché il mattone da solo non basta?

Il valore della Sardegna è dato dalla sua qualità paesaggistica e quindi dalle sue bellezze naturali. È dato dall’eredità dell’edificato antico, che era attento ai luoghi. Nulla a che vedere con le dissennate politiche di costruzione che si sono viste negli ultimi cinquant’anni

Per capire: la Costa Smeralda ha valore?

La Costa Smeralda, soprattutto nel primo periodo, ha avuto dei professionisti di qualità che hanno mostrato attenzione al contesto e proposto in generale progetti di architettura, non semplice edilizia. Intendo dire interventi che non hanno guardato alle cubature in sé, ma al legame con la storia dei luoghi e del paesaggio. Per questo non c’è stato impoverimento ambientale.

Un esempio di pessima edilizia?

Direi che in tutte le periferie dei 377 Comuni sardi è stata sviluppata, da cinquant’anni a questa parte, una tipologia di edilizia con la quale si è data priorità allo spazio privato anziché a quello comune e collettivo. Invece ciò che dà valore all’edificazione è il senso di appartenere a un progetto. E questo deve riguardare sia chi lo vive sia chi lo guarda. Ovvero la comunità. Quando nei nostri Comuni sardi gli edifici non sono conclusi e le facciate non mostrano attenzione per la composizione architettonica, non solo un immobile vale meno, ma l’intero ambito finisce per impoverirsi. Viceversa: progettare attraverso strategie comuni di qualità, amplifica l’investimento del singolo e dà valore anche al suo intorno.

Per tornare al Piano casa. Ieri dal vertice di maggioranza nessun segnale è arrivato sulle zone E: nelle campagne si potrà costruire anche chi non è operatore agricolo e il lotto minimo passa da tre ettari a uno.

È un errore gravissimo. Va confermato sia il limite soggettivo che quello oggettivo. Ovvero l’essere operatore agricolo e il dimensionamento del terreno.

Il rischio più grande?

Urbanizzare l’agro della Sardegna. E non possiamo permettercelo. Disseminare residenze nelle campagne, vuol dire l’obbligo di realizzare strade, illuminazione e sotto servizi , con enormi costi di costruzione e di manutenzione, sempre a carico della collettività. Pensiamo anche allo smaltimento dei rifiuti e ai collegamenti pubblici. E tutto questo senza che ci sia monte una valutazione strategica, anche sulle conseguenze. L’altro rischio enorme è la distruzione di un paesaggio agrario che in Sardegna è estremante particolare e non prevede costruzioni residenziali per molti chilometri. È un’altra qualità che deve esser preservata. Storicamente i contadini sardi sono sempre tornati nelle loro case nei piccoli centri dopo il lavoro.

Visto che le piace ragionare in termine di politica e non di politici, perché non organizzate ripetizioni per la classe dirigente sarda?

La federazione degli architetti, in ogni comunicato e in ogni intervista, ha sempre sottolineato la volontà di mettere i propri professionisti, paesaggisti e pianificatori, a disposizione della Giunta e delle amministrazioni per raccontare e spiegare come la norma si trasformi completamente una volta applicata. Ecco perché la competenza può essere vincente per lo sviluppo economico, sociale e culturale della nostra regione. Bisogna valutare in anticipo le conseguenze di una cattiva trasformazione e gestione del territorio e, per contro, promuovere solo quegli investimenti capaci di una forza valorizzatrice. Non a caso si dice che “il paesaggio è l’impronta dell’economia sul territorio”. Significa il dovere di attuare una strategia a monte per non mortificare il paesaggio, il nostro bene più prezioso.

Di questo Piano casa cos’altro criticate?

Il Piano casa è nato con una funziona specifica, undici anni fa. Il fine era quello di sostenere l’attività edilizia in un tempo determinato, dopo la crisi del 2008. Invece è diventato uno strumento quasi strutturale, nonostante abbia dimostrato che gli obiettivi di riqualificazione dell’edificato non siano stati raggiunti.

Gli effetti reali quali sono stati?

Abbiamo assistito a interventi edilizi slegati dall’esistente e che hanno accentuato la distanza tra professionisti e tecnici della pubblica amministrazione. Mi spiego meglio: il Piano casa è un’insieme di norme in deroga e come tali spesso poco chiare. In questi undici anni si sono generati conflitti, con tutto ciò che ne consegue in termini di incertezza e indeterminatezza sui tempi di realizzazione di un progetto. Ma in un quadro normativo di questo tipo si finisce anche per cancellare la forza e l’importanza della pianificazione.

La qualità come si inserisce in questo discorso?

Gli Ordini degli architetti si sono fatti promotori di una norma inserita già nei Regolamenti edilizi: prevede l’attivazione di una commissione di qualità paesaggistica e architettonica. L’organsimo si compone di cinque esperti con l’obiettivo di affiancare i tecnici istruttori delle pubbliche amministrazioni e dare gambe a interventi di alto valore, nonché attenti al contesto.

Meno Piani casa e più leggi urbanistiche?

Direi più Piano urbanistici comunali in adeguamento al Ppr, con la collaborazione fattiva tra Regione ed enti locali, perché questi processi abbiano tempi certi e vadano incontro alle reali esigenze dei cittadini. Consentire oggi nuove volumetrie in contrasto con le misure di salvaguardia previste dal Ppr, significa che nessun Municipio avrà più interesse a portare avanti la conclusione del processo di pianificazione. Vuol dire rinunciare ad avere una visione strategica di sviluppo strategia.

Il Ppr del 2006 è stato il migliore possibile?

Senza il Ppr i sardi non avrebbero la coscienza ambientale che hanno oggi. Grazie a quel lavoro di sedici anni fa,
i cittadini hanno compreso che il paesaggio della nostra Isola ha un valore inestimabile e non negoziabile.

Alessandra Carta
(@alessacart on Twitter)

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