Pecorino romano, perché il prezzo cala. E in Sardegna si mangia il parmigiano

Svincolarsi dal Pecorino romano. Diversificare la produzione e la commercializzazione per non restare legati all’andamento dei prezzi di un prodotto che ha il 95 per cento di latte sardo, ma che i sardi nemmeno consumano. È una delle contraddizioni della vertenza sul prezzo del latte (leggi qui l’approfondimento di Sardinia Post).

Che una delle vie sia modernizzare le nostre aziende, qualificarle e renderle capaci di competere sul mercato, è cosa nota. Ma da anni si resta legati a un solo, specifico, prodotto. Non solo. Si resta stretti a doppio mandato alle esportazioni, di quel prodotto. Che negli anni scorsi ha visto volare i suoi prezzi fin quasi a raggiungere i 10 euro al chilo, sorpassando pure Grana padano e Parmigiano reggiano.

Oggi, secondo i dati Ismea, l’Istituto di servizi per il mercato agricolo alimentare sotto vigilanza del ministero delle Politiche agricole, il prezzo è tra i 5,40 al chilogrammo, della piazza di Cagliari , e i 6,90 di quella di Macomer.
Dal grafico qui sotto (linea grigia per il 2019) si può vedere quanto è calato rispetto agli anni precedenti.

Il nodo sono le esportazioni, perché la maggior parte del prodotto è destinato all’estero o al resto d’Italia. In ogni caso fuori dall’Isola, perché i sardi, il Romano, non lo mangiano.

Il Pecorino romano, intanto, è un formaggio Dop e la sua produzione segue un disciplinare specifico. È un formaggio a pasta cotta e dura, può essere da tavola o da grattugia, ha un sapore aromatico e lievemente piccante – per il formaggio da tavola -, piccante, intenso e gradevole a stagionatura avanzata nel formaggio da grattugia. È molto simile e compatibile, negli utilizzi in cucina e a tavola, a Grana padano e Parmigiano reggiano.

Il pecorino romano, secondo i dati Ismea. è destinato per il 42 per cento agli Stati Uniti, per il 39 all’Italia e per il 19 a Paesi europei ed extra Ue (12 per cento Unione europea e il 7  altri Paesi). Il problema è qui: nel crollo delle esportazioni nel nostro mercato di riferimento, gli Stati Uniti.

Dove non sono diminuiti i consumi, ma sono cambiati i Paesi da cui si acquista. L’Italia nei primi 10 mesi 2018, per l’Istat, ha esportato il 46 per cento in meno di pecorino romano rispetto al 2017. Scalzata dalla crescita delle esportazioni di pecorino da grattugia di paesi come Bulgaria (+36,4%), Romania (+7%), Francia (+45%) e Spagna (+12%). Lì vengono prodotti formaggi dai nomi italianissimi, ma senza latte made in Italy. Ed ecco l’altro nodo legato alla tutela delle produzioni.

Così il prezzo del Pecorino romano da 7,5 e anche 10 euro al chilo degli anni scorsi (quando già si sapeva però che poteva trattarsi di una bolla) è passato a 5,4, a causa di un’eccesso di produzione: la quantità di pecorino romano che il mercato è in grado di assorbire è di 280 mila quintali, ma l’industria casearia ne ha prodotti 340 mila.

E il prezzo remunerato ai pastori lo segue a ruota. Secondo le rilevazioni dell’Ismea, il prezzo del latte ovino, aggiornato a questi giorni, ha subito un ulteriore calo nelle prime settimane di febbraio, attestandosi sui 60 centesimi al litro (iva inclusa). Nel mese di gennaio il prezzo medio registrato è stato pari a 62 centesimi al litro iva inclusa, corrispondenti a 56 centesimi netti.

Nello stesso mese i costi di produzione, iva esclusa hanno raggiunto i 70 centesimi per ogni litro trasformato, segnando un margine negativo per le aziende produttrici di 14 centesimi al litro.

E i calcoli son presto fatti se si considera che per fare un chilo di formaggio servono circa sei litri di latte. Ma non tutto il latte ovino diventa Pecorino romano: una parte concorre alla produzione di Pecorino sardo Dop, 18 mila quintali, e di Fiore sardo Dop, attorno ai 6-7 mila quintali. Diversificare diventa, quindi, un’urgenza. E commercializzare, promuovere gli altri derivati ovini, esplorare nuovi canali di vendita e intercettare i gusti dei consumatori.

Marzia Piga

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