Pecorino romano, il Bengodi è finito. Ecco perché i pastori sono in rivolta

C’è uno spartiacque nella guerra del latte, battaglia tutta isolana arrivata oggi al sesto giorno di mobilitazione (nella foto di Giorgio Fanni la protesta di oggi nel Sarrabus). Lo spartiacque è l’uscita dalla Sardegna dall’Obiettivo 1. Era il 1° gennaio 2007. Successe che qualche anno prima, per ordine del secondo governo Berlusconi in carica dal 2001 al 2005, venne deciso che la nostra Isola non doveva più stare nel gruppo di regioni considerate “in ritardo di sviluppo”, tanto da avere diritto a maggiori risorse europee. L’effetto immediato di quel provvedimento nazionale fu il taglio delle risorse in arrivo da Bruxelles. Soldi che valevano oro per il settore lattiero-caseario, visto che permettevano di pagare l’esatta metà dei costi necessari a produrre il pecorino romano dalla lavorazione del latte sardo.

Si dirà: ma cosa c’entra il ‘romano’ – come si abbrevia tra gli addetti ai lavori – con la nostra Isola? C’entra eccome, visto che negli ultimi quarant’anni, in Sardegna, il prezzo del latte non solo è stato determinato dalla domanda del ‘romano’, ma su quel mercato si sono buttati la gran parte dei pastori isolani. Era un po’ il Bengodi della pastorizia, il ‘romano’. Sembra senza fine la richiesta di latte per produrre quel formaggio che ha costi bassi. Infatti: si lavora facilmente, ha una stagionatura breve e si può tenere in magazzino anche per anni.

Sandro Cancedda

Si aggiunga, come detto, che l’Unione europea, a suon di sovvenzioni, copriva la metà delle spese di produzione. Il benessere era diffuso nella pastorizia. Agli allevatori risultava facilissimo piazzare il proprio latte, seguendo due diverse strade: veniva venduto agli industriali o erano gli stessi pastori ad associarsi in cooperative. Ma con l’uscita dell’Isola dall’Obiettivo 1, il rubinetto di soldi chiuso a Bruxelles ha avuto una conseguenza: la domanda di latte per produrre in Sardegna il ‘romano’ è crollata facendo precipitare il prezzo al litro fino agli attuali a 60 centesimi. Un prezzo che i pastori non sono più disposti ad accettare perché ne spendono tra i 70 e gli 80 per produrre un litro di latte di pecora.

Oggi gli allevatori sardi sono oggi allo stremo anche per una seconda ragione: dopo l’uscita dall’Obiettivo 1, né gli industriali né le cooperative sociali hanno diversificato la produzione, nonostante fossero state invitate ad andare oltre il ‘romano’ e puntare anche su altre tipologie di formaggio. Quindi, una volta che la trasformazione del latte in pecorino romano è stata abbandonata dopo le mancate sovvenzioni da Bruxelles, non c’è stato un nuovo mercato a cui vendere.

C’è tuttavia un elemento di stranezza nella rivolta scoppiata giovedì scorso. Il veterinario Sandro Cancedda, sentito da Sardinia Post, la chiama “confusione”. E spiega: “Il 40 per cento dei pastori sardi, associati nelle cooperative sociali, stanno di fatto facendo la guerra a se stessi. Del resto è alle coop da loro fondate che non stanno dando più il latte e preferiscono buttarlo in strada”. Il veterinario osserva: “A chi giova tutto questo? È evidente che la lotta dei pastori ha questa sorta di buco nero non risolto. Gli industriali del latte, a cui oggi viene venduto circa il 60 per cento della produzione sarda, non sono l’unica controparte della trattativa. Loro sono imprenditori e fanno esattamente il loro mestiere: contrattano, acquistano, trasformano e vendono. Le cooperative degli allevatori rappresentano il restante 40 per cento del mercato”.

Alessandra Carta
(@alessacart on Twitter)

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