Cavallette in Sardegna, il sociologo: “Un segno quasi biblico del declino”

Nicolò Migheli si spinge sino al simbolismo religioso per spiegare l’invasione di cavallette diventata in Sardegna l’ultima emergenza per agricoltori e pastori. Esperto di sviluppo rurale e comportamento organizzativo, il sociologo di Santu Lussurgiu legge, per la comunità di Sardinia Post, significato e peso dell’ennesima disastro isolano. L’anno scorso gli incendi, in questo 2022 i celiferi che dalla media Valle del Tirso, tra Sarule, Bolotana e Ottana, stanno continuando ad avanzare. Ormai, stando ai numeri di Coldiretti, superano quota 40mila gli ettari colpiti.

Dottor Migheli, l’invasione di cavallette che segno è?

È il segno più drammatico, quasi biblico, della condizione di abbandono in cui versa un territorio. Nel caso nostro, un pezzo importante dell’Isola. Anche l’invasione di cavallette è una conseguenza dello spopolamento.

Ormai sono decenni che la politica si riempie la bocca con la necessità di frenare la migrazione verso le aree costiere. Esiste realmente un modo per frenare lo spopolamento?

È difficile. È molto difficile, perché si entra nei comportamenti personali di ciascuno. Il fenomeno è mondiale: c’è la tendenza a voler vivere dove ci sono servizi. Se poi prendiamo i giovani, l’aspirazione è la dimensione metropolitana. Nel 2010, per la prima volta nella storia del mondo, la popolazione urbana ha superato quella rurale. Non era mai accaduto.

Allora perché si continua a raccontare la favoletta della lotta allo spopolamento?

I finanziamenti erogati dalla parte pubblica sono l’ultimo tentativo di mantenere quel poco che c’è. Il problema è che oggi pure lo Stato sta abbandonando il suo ruolo di presidio del territorio anteponendo nelle scelte inaccettabili logiche economicistiche. Ma se hai un ospedale a sessanta chilometri da casa e per di più lo puoi raggiungere solo dopo aver percorso una strada disgraziata, è ovvio che da quel posto te ne vai. In Sardegna ci sono comunità rimaste senza medico di base: la situazione si sta facendo insostenibile.

Va detto che viene difficile accettare di farsi operare da un chirurgo poco ‘allenato’. E anche dove sono rimasti i presidi sanitari, i pazienti non si fidano abbastanza.

In Sardegna, vista l’organizzazione dell’assistenza, si muore anche prima di entrare in sala operatoria. Basta un infarto e l’impossibilità di raggiungere l’ospedale in tempi rapidi. È il cane che si morde la coda, comunque si guardi il fenomeno: la gente va via dai luoghi perché vengono tolti i servizi. E più cresce lo spopolamento, maggiore è il depauperamento dei territori rispetto alla presenza dello Stato. In questa situazione è oggettivamente difficile anche immaginare un’offerta turistica nell’entroterra: è una strada in salita proporre una destinazione quando manca l’assistenza sanitaria minima. Quel luogo viene percepito come non sicuro.

Oltre alle città più grandi, in Sardegna cosa sta resistendo?

L’asse della Statale 131, sino a Oristano. Anche se l’area urbana non è a portata di mano, la garanzia di una strada di collegamento, a cui va aggiunta l’opzione del treno, spinge le persone a restare dove la vita costa meno. Ad aggravare la situazione in Sardegna è l’assenza del lavoro: alla migrazione interna si somma quella verso la Penisola e l’Europa. Soprattutto i giovani sono costretti ad andarsene. La nostra Isola sta diventando una terra inospitale, non riesce più a offrire possibilità.

È lo stesso filo rosso delle cavallette?

Purtroppo sì. In Sardegna continua ad aumentare il numero di aree che si stanno inselvatichendo. E non si tratta di un plus valore. Al contrario. L’abbandono dei territori comporta tutta una serie di problemi che vanno dagli incendi alle cavallette. Si aggiunga che è cambiato il regime delle piogge con concentrazioni che, sempre di più, provocano smottamenti, allagamenti e alluvioni. Disastri ambientali che sono una conseguenza del cambiamento climatico, ma anche il risultato di politiche edilizie che se ne sono fregate della compatibilità ambientale.

Costruire lungo gli argini dei fiumi è una passione anche sarda.

È chiaro che una prospettiva di questo genere apre, così come sta succedendo, praterie immense agli speculatori. In testa ci sono quelli che fanno business con l’energia. Sono sempre più numerosi gli annunci sulla stampa locale attraverso cui si cercano terreni per realizzare soprattutto impianti fotovoltaici. Vengono offerte cifre considerevoli a cui, in tempo di crisi, è difficile rinunciare. Io, ovviamente, non sono certo contrario alle rinnovabili, ci mancherebbe. Ma c’è una sovrapposizione nella ricerca dei terreni: gli speculatori dell’energia, mossi dal solo interesse di trasformare la Sardegna in servitù, cercano le aree migliori, quelle che andrebbero destinate alla vocazione principale, cioè all’agricoltura. Nutro però una speranza: la guerra sta dimostrando che nel mondo c’è una mancanza di cibo. Alla terra bisogna tornare, è una questione di sopravvivenza.

Cosa alimenta la sua speranza?

A livello mondiale la guerra è già costata oltre 90 milioni di dollari solo per l’aumento dei prezzi del grano, balzati a più 36 per cento in tre mesi. Però se è in ballo la sovranità alimentare, quindi la capacità di soddisfare il bisogno di cibo di una data popolazione, occorrerà che cambi la politica agricola. Anche la Sardegna, che conta ampie distese di terreni fertili abbandonati, deve riprendere a coltivarli facendo la sua parte per fermare la speculazione.

A cosa si riferisce in particolare?

Ai future, che non possono continuare a farla da padrone. Con la guerra stanno marcendo migliaia di tonnellate di grano, orzo, mais e semi di girasole, ferme nei silos e nei cargo di Russia e Ucraina che detengono un terzo del commercio internazionale di frumento nel mondo. Attraverso i future, che sono accordi oggi per domani, sino a oggi è successo che un agricoltore si mette d’accordo con un mulino o un commerciante per ottenere l’anticipo sull’acquisto di fertilizzanti, sementi e gasolio. Il prezzo del prodotto viene stabilito prima. La guerra sta facendo saltare questo meccanismo. Basti pensare che dall’inizio del millennio sempre più fondi d’investimento hanno puntato sull’alimentare perché non vi è banca al mondo che garantisca una remunerazione così alta del capitale messo a correre. Si arriva al 30 per cento di interessi.

Diciamo che in tutto questo il centrodestra in Regione non aiuta.

La Sardegna ha una classe politica che, quando va bene, segue il contingente, ma dimostra di non avere alcuna contezza sul futuro. Mi chiedo: qualcuno ha in mente un’idea di Sardegna nei prossimi vent’anni? La differenza tra oggi e l’immediato Dopoguerra è che allora avevano un progetto, che non è andato bene. Vero che il Piano di rinascita non è andato bene, perché basato sulla chimica, quando invece in Italia quel tipo di industria la stavano dismettendo. La politica attuale rincorre il quotidiano e dimostra di non avere slancio progettuale di lungo termine. Che è invece quello di cui abbiamo bisogno.

Qui si torna al sostegno pubblico che sta venendo meno.

Chi governa dovrebbe mettersi in testa che alcuni servizi devono essere lasciati sempre e comunque, anche quando sono un costo oneroso. Lo Stato deve entrare nella logica che non può risparmiare sulla salute o sull’istruzione. Certo, altra cosa è il taglio dei sprechi. Ma qui sono in ballo i servizi essenziali. Pensiamo anche alle Poste che stanno smantellando in troppi piccoli Comuni dell’Isola. Ci sono cittadini costretti a fare chilometri per andare a ritirare una raccomandata. E se non hai la macchina, ci devi andare coi mezzi pubblici. Ma nelle maggior parte dei casi passa un autobus la mattina presto e uno la sera, quando va bene. In queste condizioni non si può pensare di frenare lo spopolamento.

Qui luce in fondo al tunnel non se ne vede.

Alla politica non entra in testa che se la prevenzione dei fenomeni costa, intervenire a danno avvenuto implica una spesa ancora maggiore. Questo non sembra chiaro. L’area del Mediterraneo, di cui la Sardegna è parte, è antropizzata dall’età del Bronzo. Basta vedere il numero di nuraghi: il territorio era disseminato di comunità. In proporzione la Sardegna è molto più abbandonata oggi. Il concetto di ambiente selvaggio non è una risorsa, è mancanza di cura, semmai. Significa dare materiale agli incendi, significa non controllare la presenza di colonie di insetti come le cavallette. Tutto questo racconta deserto, declino, decadimento.

La prevenzione a chi spetta?

Non può spettare ai privati. Pensiamo ai terreni improduttivi avuti in eredità. A quei proprietari non si può dire che fare costantemente le bonifiche, semplicemente perché i costi sono troppo elevati e le persone non hanno i soldi. Ecco perché tutto diventa ancora più problematico.

C’è un argine a questa discesa verso il basso?

In Sardegna si sta diffondendo con grande successo la viticoltura. Che peraltro ha il vantaggio di non mettere in vendita la materia prima ma il prodotto trasformato e lavorato. Un ragionamento di filiera, e questo vale anche per latte e formaggi, permette di avere guadagni maggiori, perché ci si sgancia dalla concorrenza internazionale che impone prezzi troppo bassi.

La Sardegna si salverà dalle cavallette?

Abbiamo il dovere di non perdere la speranza.

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