Gavino Ledda a Venezia con Assandira: “Mia storia esempio per tanti giovani”

Quando nel ’75 uscì il suo romanzo autobiografico e nel ’77 i Taviani ne trassero quel capolavoro cinematografico che è Padre Padrone vincendo la Palma d’oro a Cannes, Gavino Ledda fece scalpore. La storia di quel bambino che voleva studiare ma che il padre toglieva da scuola perché aveva bisogno di un aiutante, un guardiano per le sue pecore nei pascoli impervi della Sardegna, quel mondo rurale, quell’educazione durissima, quell’abitare il mondo in fondo come si faceva all’alba del mondo divenne simbolica.

Ledda, ormai, da quel tempo è un’icona della Sardegna, oltre che dell’emancipazione. “I giovani mi vogliono bene, leggendo il mio libro non sa quanti sono riusciti a diplomarsi e mi ringraziano ancora”, dice Ledda, nato pastore, passato dall’analfabetismo alla laurea, alla glottologia, all’Accademia della Crusca, alla poesia. “A me la vita non è cambiata, quello che scrissi era un atto dovuto per la mia storia. La cultura è rimasta ancora quella di Padre Padrone”. Camicia a scacchi, t-shirt bianca sotto, sneakers ai piedi, una massa di capelli neri, Gavino Ledda ha 82 anni, ne dimostra 15 di meno, ha una vitalità incredibile, “la testa è sana, finché ho quella”, scherza, sottolineando con una punta di vanità che la chioma scura “è genetica” e che suo padre, il famoso padre padrone del romanzo e del film (Omero Antonutti) è morto a 99 anni.

È al Lido tra i protagonisti del potente Assandira di Salvatore Mereu (dal 9 settembre in sala con Lucky Red) con Anna Konig, Marco Zucca, Corrado Giannetti, liberamente tratto dal romanzo di Giulio Angioni edito da Sellerio, film fuori concorso. “Ero restio, immerso nelle mie ricerche glottologiche, poi alla fine ho capito che a Salvatore (Mereu ndr) davo un dolore, gli facevo male se non interpretavo il film e così ho accettato”.

Con il cinema ha un rapporto conflittuale, “nel 1984 ero a Venezia con il mio film Ybris ma non fu capito, era troppo avanti, mi presero per un miscredente, ma io non lo sono e così un secondo film non me lo hanno fatto fare. Per fortuna ci ha pensato Mereu, con lui la Sardegna viene dissodata cinematograficamente, io penso al mio De Rerum Natura del 3000 che sto scrivendo”.

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Assandira, “anche se non è una storia locale ma universale”, ha al centro la Sardegna e l’incontro si sposta anche sull’attualità. “L’industria del turismo non va demonizzata – dice il regista – ma quello che è accaduto ad agosto è un pianto del coccodrillo, aprendo la regione si accettava il rischio”. Più radicale Ledda: “Si stava tanto bene, poi sono arrivati i continentali ed eccoci qua, non voglio fare nomi”.

La Assandira del titolo è l’agriturismo in mezzo al bosco che di notte prende fuoco. Costantino non riesce a salvare il figlio, il maltempo che imperversa, una pioggia infinita spegne l’incendio ma non certo il suo dolore. L’indagine di polizia sulla devastazione è solo l’inizio. “Mentirei – sottolinea Mereu – se dicessi che è solo l’aspetto sociologico di quello che è accaduto negli ultimi anni in Sardegna con il turismo ad avermi motivato, piuttosto è il racconto familiare. Certo, poi c’è il racconto della mia isola, è casa mia, parlo di cose che conosco. Davanti alla tragedia ecologica, comunque, c’è da riflettere senza collocazioni regionali”. Il film del regista di Bellas mariposas, da lui stesso prodotto con Rai Cinema, “è stato possibile grazie alla Sardegna Film Commission e alla Rai che ci ha creduto, opere così, con non attori, girati nella lingua del luogo, non sono facili, ci abbiamo messo cinque anni”. Barbera lo avrebbe voluto in concorso, “e lo ringrazio. Conosco le regole dell’ospitalità e accetto che non abbia potuto. La gara aggiunge visibilità ad un’opera, la sovraespone, ma se è valida spero cammini da sola”.

Alessandra Magliaro/Ansa

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