A New York sbarca ‘Aga’ di Oliver Piras, la cucina libera dello chef cagliaritano

L’ultimo servizio è in programma tra due giorni, il 30 settembre. Poi lo chef cagliaritano Oliver Piras, classe 1986, trasferirà il suo ristorante stellato dalle Dolomiti bellunesi al quartiere Nolita di New York. Come dire: dall’intimità e dai paesaggi aperti e maestosi di San Vito di Cadore, circondati dalla natura, alla frenesia di un quartiere metropolitano, dinamico e “hip” della Grande Mela. Un cambiamento radicale, quasi due concezioni di ristorazione agli antipodi, che Piras affronta con entusiasmo e senza alcuna ansia. “A dire il vero non vedo l’ora”, confessa lo chef. “Avevo già vissuto a Londra e in altre grandi città e ora l’idea di affrontare una nuova sfida a New York, in un luogo così energico, mi dà una scarica di adrenalina fortissima e la voglia di iniziare subito”.

Il ristorante è nato più di cinque anni fa ed è stato concepito fin dall’inizio come un progetto lavorativo e di vita da condividere con la compagna, la chef Alessandra Del Favero. Quando hanno deciso di aprire Aga non avevano ancora 30 anni ma entrambi venivano da esperienze internazionali di altissimo livello. Oliver ha lavorato per più di due anni da Joel Robuchon (scomparso l’anno scorso, è stato lo chef più stellato al mondo), poi è arrivata l’esperienza cruciale al tre stelle Da Vittorio di Bergamo, dove ha conosciuto la compagna. Dopo qualche tempo la decisione di aprire un piccolo ristorante all’interno dell’hotel della famiglia di lei: appena quattro tavoli e sedici coperti per una cucina di montagna sofisticata e innovativa, in grado di attingere dal meglio dei prodotti che il territorio è in grado di offrire – come le erbe spontanee che crescono nel monte Pelmo – insieme a uno sguardo internazionale, curioso e vivace. “Una cucina di montagna mascherata”, precisa Piras. “Alcuni nostri clienti riuscivano anche a percepirlo, a intuire questa voglia di cambiamento e di mondo. Fuori stagione io e Alessandra viaggiamo moltissimo e in cinque anni abbiamo mangiato spesso in Asia. Al ritorno a casa portavamo sempre qualcosa di quelle esperienze. Contaminazioni che forse erano un po’ fuori luogo nel posto dove ci troviamo. Stavamo diventando newyorkesi in anticipo”, ride lo chef.

Il caso poi volle che uno dei clienti del suo ristorante fosse un imprenditore italiano che vive a New York e che da cinque anni aveva iniziato un percorso nel mondo della ristorazione. “Ha aperto già tre ristoranti sotto il marchio di Sola Hospitality: Sola Pasta Bar, Sola Lab e Call Me Pasta. Volevano aprire un gastronomico di alto livello e – dato che gli piaceva tanto il nostro modo di cucinare – ci ha proposto di trasferire Aga a New York. E così faremo”. La malinconia per la chiusura di un ciclo lascia subito il posto alla voglia di buttarsi a capofitto nella nuova esperienza. “Sapevamo che prima o poi sarebbe successo. Conoscevamo bene i limiti del nostro ristorante, molto piccolo. Ora pensiamo al nuovo progetto e dedicheremo i prossimi mesi a New York a cercare fornitori e approfondire i mondi delle farm americane. Faremo una cucina diversa mantenendo la nostra impronta”.

Tra i piatti più iconici del suo percorso ci sono le linguine ai mirtilli con salsiccia di manzo e abrotano, i cappelletti alla lepre e brodo di rose e liquirizia, il piccione, tamarindo e brodo di patate. Probabilmente, almeno all’inizio, i due chef cercheranno di andare sul sicuro riadattando alcuni dei loro piatti più riusciti. Ma poi la sperimentazione e la ricerca prenderanno il sopravvento. Del resto: “Se dovessi usare un aggettivo per definire la mia cucina, quello sarebbe: libera. Penso che basti”.

Lo chef continua a coltivare anche il suo legame con la Sardegna. Da poco è stato coinvolto dal Consorzio per la tutela del Pecorino Romano, dal Consorzio di tutela Pecorino Sardo e da quello Fiore Sardo, come testimonial della campagna 3 Pecorini, all’interno di un evento a Milano per promuovere i formaggi sardi. “Ho fatto un lavoro di reintepretazione e ho creato una sorta di ramen al pecorino sardo – racconta lo chef -. La gente è rimasta un pochino stranita di fronte al piatto. Ma sono fatto così: non è che cerco di fare lo strano a tutti i costi, è che mi piace cucinare in questa maniera. Prendere un prodotto riconoscibilissimo come il pecorino e reinterpretarlo alla luce dei miei viaggi e delle mie esperienze. Comunque – precisa Oliver – il piatto è stato apprezzato”. E riguardo il fermento di questi ultimi anni della nuova cucina sarda (un approfondimento si legge sul ventesimo numero di Sardinia Post Magazine), Piras dall’esterno vede molta qualità e vitalità. “Ci sono dei ragazzi veramente in gamba che lavorano col territorio e ci credono un sacco. I primi che mi vengono in mente sono Roberto Serra, Stefano Deidda (leggi l’intervista), Pierluigi Fais. A volte i nostri clienti, sapendo che sono sardo, mi parlano dei ristoranti che hanno provato nell’Isola. C’è molto interesse verso il panorama gastronomico sardo. E la qualità stimola tutti a migliorare e a crescere”.

Andrea Tramonte

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