“La Saras non inquina”. E chiede i danni alla famiglia Romanino

Quando la famiglia Romanino ha deciso di portare la Saras in tribunale, di certo aveva prospettato un percorso lungo, tortuoso, dissestato. E ci ha azzeccato in pieno.

La causa.

Al colosso della raffinazione, Liliana Mura e suo figlio Carlo Romanino hanno chiesto un risarcimento record di tre milioni di euro perché, sostengono, l’azienda agricola avviata nel lontano 1980 a due passi dalla recinzione della raffineria, è morta. A decretarne il declino e infine ucciderla, nel luglio del 2007, secondo i Romanino è stato l’inquinamento prodotto dalle attività della Saras. Tradotto: pomodori contaminati da antimonio, mercurio, piombo, arsenico, nichel e vanadio.

Dopo cinque anni, nel settembre 2012 la famiglia di agricoltori decide di citare in giudizio la Saras e chiede un maxi risarcimento: tre milioni per la cessata attività per i danni legati al fatto che, anche con le dovute bonifiche, i terreni non potranno essere utilizzati prima di vent’anni.

La denuncia contro la Saras? Strumentale: attraverso “scandalistiche prospettazioni” si mira a “indebite utilità”.

L’iter va avanti. E il 29 gennaio si va ad udienza. E i legali della Saras, Guido Chessa Miglior del foro di Cagliari e Luisa Beretta da Milano, presentano al giudice del Tribunale di Cagliari Gabriella Dessì una memoria di venti pagine che non solo ricaccia al mittente – con sdegno – le accuse, ma pure chiede che i danni, a pagarli, siano i Romanino. I legali dei Moratti ricordano prima la prescrizione, poi la ‘lite temeraria”. Che, secondo quanto recita il codice civile, si ha quando “si agisce (o resiste) in giudizio con mala fede e colpa grave, ossia con consapevolezza del proprio torto”. Insomma: Liliana Mura e suo figlio, Carlo Romanino, saprebbero benissimo che la Saras, con l’inquinamento della loro azienda, non c’entra nulla. Eppure, la citano in giudizio.

Le tesi della difesa/1. La prescrizione.

Dicono in sostanza Miglior e Beretta che, se anche fossero verosimili le accuse mosse al loro assistito (la Saras), la cessata attività risale al luglio 2007, mentre la denuncia è stata presentata nel settembre di cinque anni dopo. E dunque, tutto va in prescrizione.

Le tesi della difesa/2. La Saras non inquina.

Nonostante questo ‘particolare’, gli avvocati della difesa puntano a neutralizzare le accuse anche nel merito. Dicono ad esempio (pag. 12 della relazione) che “la Saras contesta con decisione l’attribuibilità di qualsiasi inquinamento ambientale all’attività produttiva del suo impianto di produzione”.

Le tesi della difesa/3. Non siamo soli. E se si parla di ‘impatto ambientale consistente’, guardate altrove.

Proseguono Chessa Miglior e Beretta riportando il fatto che la Saras non è l’unica realtà industriale presente sul territorio. Ci sono pure la Versalis spa, già Polimeri Europa, l’Eni, la Sasol e la Air Liquide. Inoltre, vi è pure “un numero considerevole di industrie metalmeccaniche con propri cantieri di riparazione e costruzione il cui impatto ambientale è consistente e privo di controlli”. Un’accusa, insomma, senza tutti i nomi e i cognomi.

Di chi è la colpa? Del mare. E della mancata manutenzione delle serre.

Secondo i difensori della Saras, se le canalette di raccolta delle acque piovane sono corrose la colpa è da ricercare nel mare: il colpevole è il clima salmastro. E la scarsa manutenzione delle serre da parte della famiglia Romanino. Anche se nella perizia effettuata dall’agronomo Giorgio Carruxi si dice che la più piccola piccola delle strutture in effetti necessita di manutenzione, mentre la più grande è in “buone condizioni”.

“Un certo Aime” e “le tre scarne e insignificanti paginette”. Una (mancata) lezione di stile.

Quando i Romanino hanno deciso di denunciare la Saras, si sono rivolti a un geologo cagliaritano, Manlio Aime, per uno studio preliminare sullo stato dell’arte. Lo stesso studio che, inviati i campioni raccolti a un laboratorio d’analisi fiorentino, nelle polveri di ricaduta e nel bacino di raccolta delle acque piovane impiegate poi per l’irrigazione delle coltivazioni, ha rilevato una concentrazione al di sopra dei livelli consentiti di metalli pesanti come arsenico, antimonio, piombo, nichel.

Di contro, con riferimento allo studio preliminare, i due avvocati della Saras bollano la relazione di Aime come nulla più che qualche riga inconcludente e i dati resi dalla BioChemie Lab di Firenze come inconsistenti. Definendo il tutto sostanzialmente come insignificante.

Acque potabili e acque irrigue. 

Diversi i punti contestati, dal fatto che non si conosce la quantità dei campioni prelevati fino a sottolineare che i valori di riferimento relativi alla concentrazione dei metalli pesanti siano “errati in quanto attinenti all’acqua potabile, che non è certamente il nostro caso, e non sono con tutta evidenza utilizzabili, ad esempio per acque irrigue, i cui limiti di riferimento sono ampiamente superiori ai valori evidenziati dal Dott. Aime, sì che in base alle tabelle applicabili il campione di acqua esaminato sarebbe nella prima classe e cioè si tratterebbe, per gli usi irrigui, di acqua di ottima qualità”.

Tradotto: l’acqua analizzata non sarà potabile, ma per l’irrigazione rispetta i parametri di legge.

I quattro punti.

In definitiva, sostiene la Saras che ciò asserito da Liliana Mura sulla scorta del rapporto di Manlio Aime è inidoneo a provare “l’effettiva esistenza dell’asserito inquinamento ambientale”, “l’attribuibilità dello stesso ad una colpevole attività della Saras”, l’ipotizzata conseguente contaminazione degli ortaggi” e “il nesso di causalità necessaria tra tale asserita contaminazione e la cessazione dell’attività di coltivatrice diretta”.

Ma la Saras si oppone ad ulteriori controlli.

Chessa Miglior e Beretta, dunque, contestano i documenti preliminari prodotti da Liliana Mura e Carlo Romanino. I quali, però, chiedono al giudice di disporre ulteriori perizie. E cosa dice la Saras? Semplicemente si oppone. E chiede a Gabriella Dessì di giudicare inammissibile la richiesta. Per Miglior e Beretta la questione va chiusa qui, senza ulteriori verifiche.

Liliana Mura? E’ vecchia. 

Secondo i legali dei Moratti, “è sicuramente più realistico e verosimile pensare che l’attrice (Liliana Mura, ndr), abbia deciso di smettere una indubbiamente impegnativa attività, anche fisica, di coltivatrice diretta per i raggiunti limiti d’età ovvero per scarsa redditività dell’impresa dovuta sia al deprezzamento dei prodotti italiani […] sia all’incremento dei costi di produzione”.

Rilevano poi i due avvocati che il perito agrario (“certo Giorgio Carruxi”, scrivono) sostiene che la bonifica dei terreni non può dirsi completata prima di vent’anni. Ma visto che Liliana Mura è nata nel 1944 e “oggi risulta avere 69 anni”, ha già “raggiunto l’età pensionabile e, quindi, esaurito la sua capacità lavorativa e produttiva di reddito”. Poco importa che il figlio Carlo abbia deciso di seguire le orme di famiglia, anche se probabilmente non risulta titolare dei terreni in questione.

Spese.

Altro che risarcimento: la Saras i denari li chiede a Liliana Mura e Carlo Romanino. Oltre alle spese processuali, ci sono i danni per la ‘lite temeraria’. E si chiede anche la presentazione della dichiarazione dei redditi degli ultimi dieci anni. Per provare, insomma, che l’attività fatturava eccome. Poi è stata interrotta. Perché la signora Mura era anziana, appunto, e non per l’inquinamento dei terreni dovuto alle attività della Saras. Che non inquina.

Ma di disporre ulteriori controlli  non se ne parla.

Pablo Sole

sole@sardiniapost.it

 

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