Non è un carnevale di allegria il “Carrasecare” della Barbagia. Lo scriveva anche Salvatore Cambosu in “Miele Amaro”: «… se vuoi un carnevale che non ce n’è un altro su tutta la terra, vattene a Mamoiada che lo inaugura il giorno di Sant’Antonio: vedrai l’armento con maschere di legno, l’armento muto e prigioniero, i vecchi vinti, i giovani vincitori: un carnevale triste, un carnevale delle ceneri: storia nostra d’ogni giorno, gioia condita con un po’ di fiele e aceto, miele amaro».
A partire dal 7 febbraio, nel cuore antico della Sardegna, si commemora Dioniso, dio della natura e dell’estasi, che ogni anno muore e risorge nell’immutabile ciclo della vita. E il lutto per il dio sbranato dai titani — a simboleggiare la morte invernale della natura — emerge da quei riti ancestrali, popolati di figure dalle maschere zoomorfe, coperte di pelli e di vesti indossate al rovescio, a significare il mondo capovolto: quello dei morti.
Volti anneriti e gesti antichi, carichi di simbologia misteriosa e di simulazione tragica e inquietante evocano ombre di un arcaico aldilà. Danze e riti propiziatori pagani e selvaggi di cui nessuno storico del passato ha osato parlare prima dell’etnologo nuorese Raffaello Marchi, che li ha studiati negli anni ‘50.
É da allora che la finzione delle maschere inizia a confrontarsi con quella realtà che la fotografia ambisce a rappresentare. E sui carnevali sardi alcuni grandi fotografi hanno prodotto scatti memorabili.
Lo sguardo di Pablo Volta, in “Sardegna come Odissea” per i tipi di Ilisso, indaga quel mondo quasi omerico che era la Barbagia degli anni ‘50, in cui la gestualità quotidiana della morra si intreccia con quella rituale dei mamuthones, dove la mastruca del vecchio pastore non si distingue da quella delle maschere. Realtà vissuta e tragedia rappresentata si intrecciano e si confondono in un affresco antropologico dove verità e finzione, gesto quotidiano e rito pagano non sono mai stati così uguali.
Il viaggio sardo di Andreas Bentzon ci ha lasciato un patrimonio di studi e di immagini inestimabile. Ma ad affascinare l’etnomusicologo danese non sono solo i suoni delle launeddas. Nelle immagini pubblicate su “Lo sguardo esterno” edito da Ilisso, il suo occhio cade anche sui muti attori del carrasecare di Ottana e sul “dopo” quando, calata la maschera tragica, s’alzano i bicchieri e va in scena la parte orgiastica del rito Dionisiaco: l’ebbrezza e l’estasi del vino.
Franco Pinna, antropologo e fotogiornalista di razza, coglie l’anima antica della sua terra, attento ai fermenti sociali degli anni ‘60. Quella che scorre sul volume “L’isola del rimorso” di Imago è la Sardegna rugosa del neorealismo, dai paesaggi aspri e solitari, dalla religiosità antica. É terra di latitanti, di posti di blocco, di moti di piazza dei pastori. E di riti dolenti che hanno i tratti spigolosi delle maschere di boes e merdules.
Il carnevale di Giorgio Lotti in “Sardegna” edito da Edizioni della Torre perde il fascino del bianco e nero per proporci un rito già contaminato, che ha smarrito l’antica sacralità per trasformarsi in “evento”.
«I carnevali di un tempo — dice la professoressa Dolores Turchi, studiosa di tradizioni popolari della Sardegna — erano rivolti allo sguardo interno, attento alla comunità del paese e alla sacralità dei riti. Quelli di oggi cercano lo sguardo esterno, quello del turista. è quindi fatale che, perdendo i loro significati più autentici, cedano ai tranelli del folklore».
E i fotografi di oggi, di riflesso, sono attratti dagli aspetti spettacolari di queste cerimonie pur riuscendo a rappresentarne, talvolta, la misticità residua. Tra questi Franco Nonnoi, che ha scattato immagini straordinarie per cromatismo e intensità e con un bel lavoro di indagine documentaria pubblicata da Imago in “Maschere e Carnevale in Sardegna”.
Ma il Carrasecare autentico è altrove. È negli scatti in bianco e nero degli anni ‘50 e ‘60. Quelli che potevano ancora rendere l’ambiguità e il mistero realmente sentiti e quel senso di mesta allegria che è metafora della nostra storia.
Enrico Pinna